24.11.09

SALVATORE VAIANA, Il sacco di Caltanissetta

Pubblicato su 
"Incontri"

rivista del Rotary Club di Caltanissetta, 
giugno 2008. 

Il 12 novembre del 1820 scoppiò a Canicattì la prima cosiddetta rivoluzione contadina (in realtà una jacquerie) di cui si abbia memoria. Essa fu la conseguenza dell’eccidio premeditato di cui furono vittime parecchie persone che manifestavano contro l’esosità fiscale ed esplose poco dopo il moto separatista del 14 luglio dello stesso anno, del quale furono protagoniste sia la nobiltà che la borghesia carbonaro-massoniche, insorte contro l’assolutismo borbonico, nonché gli artigiani, vittime di una depressa condizione dell’economia.
La carboneria si era propagata nel Regno di Napoli dopo il 1805. Lo storico Nino Cortese aveva accertato la presenza della carboneria in diverse province siciliane nel suo studio L’Abela e la Carboneria siciliana del 1819, e più di recente Salvatore Lupo ha scritto che «durante la cospirazione risorgimentale esisteva una rete clandestina ispirata alla massoneria attraverso la sua filiazione, la carboneria»(1). Anche in provincia di Girgenti vi era una significativa presenza di vendite carbonare. Giuseppe Carlo Marino parla di «alcuni nuclei carbonari dell’agrigentino» fra cui l’«Unione Italica di Canicattì» (2). A Naro e Canicattì alcuni seguirono il siracusano Gaetano Abela, che operava per un’adesione delle province siciliane alle richieste dell’indipendenza da Napoli e della Costituzione del 1812. Seguaci di Abela erano Baldassare Gaetani di Naro e Antonio Brutto e Antonio Racalbuto di Canicattì. I carbonari canicattinesi, scrisse un anonimo cronista canicattinese, andavano addirittura «ne’ paesi circonvicini ad ammaestrare altri Carbonari, ed aprire logge, e vendite» (3).
La carboneria, a giudizio di Domenico Riolo, un eminente massone narese, «si prefiggeva per scopo la distruzione dei governi monarchici e di sostituirvi un governo nazionale collegato insieme come una confederazione e giurava odio eterno ai governi anticostituzionali e si riprometteva di vendicare le onte fatte soffrire all’Italia, alla quale si doveva assicurare l’indipendenza» (4). Era organizzata, sul modello delle logge massoniche, in vendite, vendite madri e alte vendite. Secondo il Riolo «le vendite non erano che antiche Logge Massoniche con le quali molto avevano in comune nelle forme, nei riti, nei giuramenti, nei diritti e nei doveri». Un riscontro dell’ipotizzato legame massoneria-carboneria è l’appartenenza del narese Ignazio Specchi sia alla massoneria sia alla vendita carbonara dei «Beati Paoli». Carbonara era la classe dirigente di Canicattì, proveniente perlopiù dalle famiglie Gangitano, La Lomia, Testasecca, Lombardo, Adamo (le famiglie del latifondo e delle professioni, fra le quali si distinguevano i borghesi Gangitano e i baroni La Lomia). Fu essa a dirigere il moto separatista del 1820. Quando questo esplose, sindaco di Canicattì era don Giuseppe Gangitano e «prosegreto», dopo «la renuncia di Don Raimondo Gangitano», don Pietro Palumbo.
Nel quadro regionale, una delle anime del moto fu il principe di Fiumesalato Salvatore Galletti, meglio noto con il titolo di Principe di San Cataldo. Alla guida di un improvvisato esercito di contadini e di ex detenuti, il Principe marciò alla volta di Caltanissetta per spingerne gli abitanti ad aderire alla causa dell’indipendenza; ma la risposta negativa generò un conflitto al limite della vera e propria guerra civile.
L’esercito del principe fu rafforzato da squadre di «nuclei carbonari» provenienti da Girgenti (dove agiva il cappuccino fra Giosuè Pennica, che incitava il popolo al grido di «o Indipendenza, o Morte», «fuori i cappelli») e da altri centri vicini, fra cui Canicattì.
Qui, ad approntare uno squadrone in armi d’improvvisati militi, finanziato da uomini appartenenti alla Carboneria, fu il Presidente della nuova deputazione, don Luigi Brutto, coadiuvato dai membri don Salvatore Gangitano, baronello Gaetano Adamo, don Gaspare Cascio, don Nicolò Safonte e don Giuseppe Grifo. Il 10 agosto il drappello marciò alla volta di San Cataldo per unirsi all’esercito del Principe.

«Giovedì mattino il detto Presidente, e deputazione» racconta l’anonimo «si fecero prontare da questi benestanti e persone facoltose la somma di onze 400 a nome di mutuo, si fece una buona raccolta di scoppi, e partirono da questa dopo pranzo circa 200 uomini inclusi circa 50 a cavallo, tutti bene armati, con bastante provisione di cartocci e le dette 400 onze per la paga de’ suddetti, cioè quelli di cavalleria tarì 5 al giorno e quei di fanteria tarì 3 al giorno e la sera furono a San Cataldo da detto signor Principe, con molto giubilo ricevuti, avendo marciato coi medesimi Don Giovanni Testasecca e Don Nicolò Adamo in grado di Capitanio e molti altri gentiluomini, e mastri» (5).
Tre giorni dopo l’orda armata del vendicativo principe entrò a Caltanissetta e massacrò con inaudita ferocia i nisseni; poi razziò la città e la campagna circostante. Ecco il resoconto che di quella domenica di sangue fece il nostro cronista:

«A 13 detto agosto 1820 - Domenica mattina s’intese che Caltanissetta era stato vinto dalla nostra gente, la sera antecedente, dietro l’attacco sudetto principiato a Babbagurra da dove l’armata da circa 400 uomini di Caltanissetta fu inseguita e perseguitata dalla nostra armata sino alli mura di Caltanissetta; perseguitò lo combattimento della nostra armata sino alle ore 4 e poi cominciò ad entrare dentro Caltanissetta ove sino a tutto quasi detto giorno domenica continuò lo saccheggio avendo devastato e discassate non puoche case e botteghe e presesi tutto ciò che in esse esisteva di mobile, argento oro mercerie pannime ed altro» (6).
La speranza indipendentista di nobili, galantuomini e artigiani di Canicattì non sarebbe durata a lungo: già il 7 settembre l’esercito reale venuto da Messina attaccò a San Giuliano la squadra canicattinese mettendola in fuga. Arrivata la notizia a Canicattì, il panico per le prevedibili ritorsioni nemiche si diffuse in un baleno: «Si scoraggiarono tutti li deputati, il Presidente, e la popolazione. La sera si fece fana per tutto il comune e da tutti si rundò da ogni ceto di persone, si pel paese che fuori dello stesso». Con vile atto «il Barone Don Agostino la Lomia, Don Raimondo Gangitano, Don Diego Gangitano, Donna Giuseppa Gangitano con le loro famiglie, e tant’altre persone, sene andiedero chi nella campagna, e chi in paesi convicini, lasciando le loro case in abbandono»: abbandonavano così la povera gente a un destino di certa e violenta ritorsione. Ma di fronte a tale inaccettabile codardia, il popolo ebbe una reazione ferma e minacciosa.

«Il popolo basso preso di timore, e vedendo che li primari del paese sene avevano andato, cominciò il dopo pranzo a mormorarsi che o vengono qui o se gli va a brugiar le case, e d’ordine del Presidente si fa promulgare il bando o che per dimani mattina alle ore 12 si faranno qui trovare, altrimenti se gli bruciano le case; e tale ordine fu promulgato d’ordine del Presidente, senza saperlo, motivo - che avendolo inteso - subito andò a ritrovare il banditore con una gran folla di popolo nella piazza di Borgalino ed ordinò che il bando doveva essere soltanto di far venire i benestanti fuggiaschi ed indi cominciò a perorare, dicendo che questo era l’ordine suo e non già dell’incendio che dicevano» (7).
L’8 settembre il consiglio del popolo decise che una delegazione di autorità comunali incontrasse il generale Costa affinché questi «sospendesse di venire qui [a Canicattì] a dare sacco, giacché questa popolazione si era dichiarata a favore del Sovrano, e si pentiva di quanto aveva fatto, pel timore, volendo la indipendenza». Furono alla fine inviati due messaggeri a chiedere la grazia, riconoscendo così «l’errore che pel timore si è commesso». I canicattinesi, infine, ottennero «il perdono e la pace» ma «furono multati» pesantemente.
Gli alti carbonari della classe dirigente locale, i Gangitano, i La Lomia, i Lombardo e gli altri invisi al popolo, si rimisero senza alcuna remora la maschera borbonica. Già l’8 ottobre don Antonio Gangitano, «avido di regnare, intesa la notizia della pace, fece armare circa 30 persone con scoppi e potenzialmente pretendeva rientrare nella carica di Giudice circondario». Con questa numerosa ed eloquente ”banda armata” il giorno dopo si recò alla Casa comunale e costrinse i deputati e il giudice circondariale a recedere dai loro incarichi.
Non ebbero la stessa fortuna i carbonari di altri centri insurrezionali della Sicilia, dove ci fu una pesante repressione della quale rimasero vittime anche i seguaci canicattinesi di Gaetano Abela: Antonio Brutto, Antonio Racalbuto, Gaetano Lauricella, Gaspare Bonavia, Francesco Spagnolo, Paolo Pontillo e mastro Sebastiano Pagliarello. Il 29 ottobre, furono arrestati a Palermo il generale Abela, Luigi Brutto, Vincenzo Gaetani e Filippo Stella, i quali, per essere stati «contrari all’armata realista, furono portati a Castello a mare e per li primi tre giorni stiedero in camicia e calzi di tela».
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NOTE

1 - S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli editore, 1996, p. 59.
2 - G. C. Marino, Saverio Friscia socialista libertario, Palermo, Istituto Gramsci Siciliano, 1986, p. 42.
3 - Cronache di Canicattì dal 1792 al 1852, manoscritto anonimo, trascritto da Cesare Gangitano, Napoli, 2003.
4 - M. Riolo Cutaja, Frammenti, Palermo 1989, p. 498.
5 - Cronache di Canicattì dal 1792 al 1852, op. cit.
6 - Ibidem.
7 - Ibidem.
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