2. IL SAGGISTA DI MICROSTORIE
3. IL CRITICO LETTERARIO
4. IL CRITICO D’ARTE
5. IL CULTORE DEL DIRITTO
6. L’UTOPISTA ALL’ALBA DEL TEMPO DISTOPICO
Conclusione
maestro di memoria e storia
Al di fuori della sua quarantennale professione di avvocato penalista presso il foro di Agrigento, il canicattinese Diego Guadagnino è noto da oltre tre lustri come autore di opere che hanno ottenuto una significativa risonanza critica, testimoniata dall’attenzione di studiosi e recensori di ambito regionale e nazionale. Il suo percorso letterario comprende due sillogi poetiche – Trasmutazione (2007, 2020) e Apocrifi (2011) –, tre opere narrative – La via breve (2009), I filosofi della Quarta Sezione (2013) e Tindaro La Grua (2020) – nonché la biografia Il fabbro e le formiche (2011).
L’ultima pubblicazione, L’anonimo di Canicattì. Tra letteratura e storia 2003-2023 (Kromato Edizioni, 2024), si presenta invece come una raccolta di scritti d’occasione, composti nell’arco di un ventennio: prefazioni e postfazioni a opere di storici, narratori e poeti siciliani; recensioni e articoli apparsi su riviste cartacee e su blog; relazioni presentate in convegni di carattere culturale o professionale.
Questi testi rappresentano solo una parte della produzione saggistica dell’autore negli ultimi trent’anni, una produzione più ampia che meriterebbe, per coerenza e completezza, una futura pubblicazione organica, al fine di offrire una conoscenza più estesa e sistematica del suo pensiero.
Per un’opera così eterogenea vale quanto è stato osservato nella nota editoriale degli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, autore particolarmente caro a Guadagnino:
«Scritti corsari è più che una raccolta di articoli, interviste, recensioni. È, come viene detto nella nota introduttiva, piuttosto un libro che il lettore deve ricostruire. “È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere i passi lontani che però si integrano”. Così che questo libro di scritti nati dall’occasione ha una singolare unità, anche perché nei fili che ne compongono il tessuto è sempre ben visibile “l’arte scontrosa o mestiere” dell’autore.»Anche L’anonimo di Canicattì, dunque, è «più che una raccolta» e, come tale, richiede una ricostruzione attiva da parte del lettore, ricostruzione che, per quanto rigorosa, non può che restare in parte soggettiva. È precisamente questo il tentativo che anima il presente saggio, nella speranza di riuscire a restituire quella «singolare unità» che attraversa e sostiene testi nati in contesti differenti. La stessa nota editoriale del volume individua, suggerendola come possibile chiave interpretativa, l’unitarietà dell’opera nel «parlare di Canicattì, del suo più recente passato, dello stesso autore».
Accogliendo e sviluppando tale indicazione, abbiamo concentrato l’attenzione su un termine che riteniamo decisivo: il «passato», ovvero la storia. La storia occupa infatti un posto centrale nel libro e, più in generale, nel percorso intellettuale dell’autore; ma la sua rilevanza si estende ben oltre il perimetro dell’opera, investendo l’intera condizione dell’umanità contemporanea, attraversata da una crisi profonda della memoria storica e chiamata a confrontarsi con una congiuntura che appare decisiva per le sorti stesse dell’homo sapiens.
L’opera consente di conoscere l’autore in una veste diversa da quella, già nota, del poeta e del romanziere: quella del saggista.
Si tratta di un’ulteriore cifra espressiva che, insieme alla raffinata e ampia cultura, mette in luce la composita e complessa figura di uno studioso e di un intellettuale attivo, capace di attraversare ambiti disciplinari diversi mantenendo una forte coerenza di visione.
Il libro si configura inoltre come un dono sentimentale alla città natale, in particolare alla Canicattì identitaria dell’infanzia, che costituisce per Guadagnino un nucleo originario di esperienza e di senso:
«Se dovessi ricercare Canicattì nella mia identità - scrive nella nota finale di questo libro -, direi che amo la città in alcuni suoi luoghi, in alcuni spazi che, sommati tra loro, la ridurrebbero a un piccolo villaggio dove tutti si conoscono e s’incontrano ogni giorno. Tra questi spazi primeggia la via Vicari, dove ho vissuto l’infanzia, affiancata dalla chiesa di San Calogero, dove ho fatto la prima comunione, e dalla chiesa di San Biagio, dove andava a messa mia madre. Il resto è venuto dopo. E non accende il mio sentimento alla pari di quei luoghi.»
Tuttavia, «l’anima profonda canicattinese, che poi è quella dell’universo contadino», è già al tramonto negli anni Cinquanta, gli stessi anni della fanciullezza dell’autore. È proprio quell’«anima profonda» che Guadagnino fa rivivere attraverso «il sortilegio della parola» ne La via breve. Nella prefazione, la scrittrice Maria Attanasio puntualizza come «la restituzione memoriale» dell’autore non eluda «il movimento della storia» né «le laceranti dinamiche sociali» del tempo: «la fame, il freddo, l’ingiustizia, ma anche – e nonostante tutto – l’ostinata volontà di cambiamento, la speranza di futuro». Una speranza in cui si radica l’utopia, concetto centrale e ricorrente nel pensiero di Guadagnino. Di quel «movimento della storia» - e in particolare delle epiche lotte contadine del secondo dopoguerra - l’autore tratta diffusamente nei suoi saggi con un atteggiamento non nostalgico ma critico.
Quella descritta è una città contigua nel tempo ma ormai lontanissima nello spirito rispetto a quella opulenta, consumistica ed edonistica del cosiddetto miracolo economico degli anni Sessanta e seguenti, passata sotto il torchio della impietosa satira nella sua commedia giovanile Canicattì regina dell’uva.
I saggi raccolti nel volume si soffermano sì sul «recente passato» di Canicattì, ma non si limitano a esso. Essi includono infatti cenni alla Canicattì seicentesca dei Bonanno e, soprattutto, un ampio e denso commento al manoscritto di un anonimo personaggio che, tra il 1792 e il 1852, annota in forma diaristica «eventi individuali e collettivi» della vita cittadina.
È proprio questo commento, lungo e analitico, a dare il titolo al libro, ad aprire la serie dei saggi e a fungere da vero e proprio «pre-testo» per parlare di Canicattì e dell’autore stesso.
Secondo Guadagnino, l’Anonimo esprime emblematicamente lo «spirito pragmatico» dei suoi compaesani, un «pragmatismo economico» diffuso e identitario, avulso dalla spiritualità quanto dal sentimento poetico: egli «non si lascia mai sfuggire una citazione letteraria, un verso di un poeta vicino o lontano nel tempo, un’osservazione mossa da vago sentimento di poesia, niente, e questo ne fa un degno epigono del pragmatismo canicattinese».
Questo spirito appare in netto contrasto con l’animo poetico dell’autore, la cui parola nasce da una radicale operazione interiore: «scaturisce / dal silenzio ch’è cenere di brama», scrive in Trasmutazione. «La parola poetica - chiarisce l’autore - non può che nascere dal silenzio dell’emotività. L’emotività ci dà un’immagine distorta del reale, ci esilia nel mondo dell’inganno, che è mera proiezione della nostra brama. Ecco perché bisogna incenerire la brama e lasciare che da tale cenere scaturisca la poesia». In questa prospettiva non è casuale la scelta di collocare in chiusura del libro - agli «antipodi» del saggio sull’impoetico Anonimo - l’intervista L’Adamo di Canicattì. Adamo, come osserva il critico Andrea Guastella, è per Guadagnino, l’uomo consapevole del suo «essere nel tempo», «permanentemente sospeso […] lacerato e combattuto» tra la materia e lo spirito. La via d’uscita da questa condizione è individuata in un percorso di progressiva liberazione dalla materia, dal «mondo dell’inganno», fino alla conquista dello spirito.
Tra il testo di apertura e quello di chiusura si dispongono i saggi intermedi, secondo un ordine che appare tutt’altro che casuale, riflettendo la gamma degli interessi culturali dell’autore. Il primo gruppo affronta temi di storia locale, il secondo di letteratura, il terzo di arte, il quarto di diritto, delineando un itinerario coerente che accompagna il lettore attraverso i diversi ambiti del suo impegno intellettuale.
Il libro, forse non casualmente, presenta un titolo di taglio storico-cronachistico accompagnato da un sottotitolo che ne esplicita il riferimento alla storia.
Quest’ultima, infatti, non costituisce soltanto uno dei nuclei tematici della raccolta, ma si configura come una presenza costante anche nelle altre tipologie saggistiche, un fattore ricorrente nell’analisi dell’autore e un riferimento trasversale che finisce per assumere la funzione di vero e proprio filo conduttore dell’opera.
In ragione di tale centralità, appare opportuno ricostruire, sia pure per tratti essenziali, la visione della storia elaborata da Guadagnino, richiamando nei paragrafi che seguono quei passaggi utili a chiarire il rapporto fra storia e ideologia — oggi al centro di un acceso dibattito sul futuro stesso della disciplina storica — e il contributo della microstoria e della memorialistica alla cosiddetta “grande storia”.
Si tratta, inoltre, di riflessioni propedeutiche alla ricognizione dei saggi storici, letterari e artistici che verranno successivamente analizzati.
Nei suoi saggi Guadagnino proietta una visione della storia fondata sui “fatti reali”, collocandosi in una prospettiva dichiaratamente realistica.
È da questo punto di vista che egli giudica positivamente il manoscritto dell’Anonimo, ravvisandovi «una specie di grado zero della storia», ossia una narrazione spogliata di sovrastrutture ideologiche falsanti.
Di conseguenza, l’autore critica “la Storia come siamo stati educati a concepirla”, vale a dire una “Storia pensata”, una “Storia come ideologia applicata ai fatti”. Ed egli aggiunge: «Oggi che viviamo più che mai dentro un ologramma cognitivo, dove la narrazione mediatica prevale sui fatti reali, l’espediente ideologico appare ancora più marcato».
È proprio così, nel nostro tempo, falsamente anti-ideologico, i «fatti reali» vengono distorti dai mass media e sostituiti dalle fake news dilaganti nei social network: entrambi fenomeni preoccupanti che hanno contribuito a inaugurare il tempo della post-verità.
A proposito dell’influenza persistente dell’ideologia, Guadagnino — con un implicito riferimento alla tesi della “fine della storia” avanzata dallo storico neoliberale nippo-statunitense Francis Fukuyama — osserva che
«uno dei concetti che da qualche decennio a questa parte ci si vuole conculcare è la cosiddetta fine delle ideologie: in realtà, è un sapere costruito dalla sola ideologia dominante che, proclamando la morte delle altre, proietta sul mondo la propria narrazione come pura oggettività».Secondo Fukuyama, il crollo dell’Unione Sovietica e dell’economia pianificata avrebbe sancito il trionfo für ewig del sistema liberal-capitalista occidentale, fondato su un’economia di mercato di tipo ordo-liberista. A ciò sarebbe seguita la fine della storia intesa come conflitto. Ma così non è stato: i nuovi conflitti, con il rischio nucleare che comportano, insieme alla questione ambientale e alle incognite tecnocratiche, continuano a incombere come una spada di Damocle sul genere umano.
Nel frattempo, il futuro stesso dell’homo sapiens e della sua storia veniva messo in discussione dalla rivoluzione tecnologico-informatica, la quale, nel suo pieno sviluppo, avrebbe prodotto — secondo le previsioni dello storico israeliano Yuval Noah Harari — l’homo deus.
Sullo stato della storia nella società tecnologico-informatica si sono espressi studiosi e storici di diverso orientamento storiografico: da Marcello Veneziani, che in un recente articolo ha parlato di «storicidio» (2024), a Giuseppe Carlo Marino, autore del saggio Contro l’inverno della memoria (e della storia) (2019) — preceduto da Eclissi del principe e crisi della storia (2000) — fino ad arrivare, a ritroso, al testo che ha aperto la questione, La fine della storia (1992) di Fukuyama. Sono solo alcuni tra i molti contributi che, da prospettive spesso opposte e talvolta antitetiche, sollecitano una riflessione approfondita sul destino della storia.
Lo storicidio denunciato da Veneziani — che chiama in causa, con toni fortemente polemici, gli storici accademici — riguarda la “memoria storica rinnegata o demonizzata”, le “storie negate o travisate” che reclamano “revisioni”.
È proprio il rischio del revisionismo che desta preoccupazione in Guadagnino, soprattutto quando tale denuncia sembra preludere a una riabilitazione implicita di nazionalismi, razzismi e fascismi, attraverso la messa sotto accusa di grandi eventi storici come la Rivoluzione francese o quella comunista.
Con una visione storiografica di segno opposto e di più ampio respiro, Marino aveva già parlato di indifferenza verso la storia e di annichilimento della «memoria collettiva» nella società della rivoluzione tecnologico-informatica, definita come «una società biotecnologica destinata a funzionare e a “pensare” con il cervello dei computer e sotto il loro imperio». E scriveva:
«Quel che era stata “l’età della storia” regolata dalla logica dialettica, pervenuta a piena maturità nell’Ottocento […], si è drasticamente convertita in un’“età dell’anti-storia”. […] Mai come ai nostri giorni il disinteresse per la storia e per la storicità è stato così ampio e diffuso, mai la memoria più labile e persino rimossa o rifiutata, sia nell’uomo della strada che nei ceti dirigenti e, davvero platealmente, nella classe politica il cui distacco dalla storia è ormai così “normale” da non fare più scandalo.»
Sul piano storico-metodologico i riferimenti di Guadagnino sono la scuola storiografica delle Annales, che rivoluzionò il metodo storiografico dilatando i confini dell’indagine storica, e la microstoria che da quella trae ispirazione.
Si tratta di orientamenti che hanno contribuito a ridimensionare la centralità della storia politico-istituzionale, spostando l’attenzione sui comportamenti collettivi, sulle strutture di lunga durata e sulle vicende minute di individui e comunità marginali. In questa prospettiva, la microstoria non rappresenta una riduzione del campo d’indagine, ma un suo perfezionamento, poiché il particolare, il locale e il singolare diventano strumenti privilegiati per interrogare l’universale.
Fondatore della scuola e della rivista Les Annales è Lucien Febvre, di cui Guadagnino esplicita, apprezzandolo, un concetto in particolare:
«la sensibilità storica o “immaginazione intuitiva” […] come risorsa indispensabile a un’indagine storica che non voglia arrestarsi al di qua della linea d’ombra dei grandi eventi e dei grandi personaggi. E non c’è dubbio che questo tipo di sensibilità possa essere spesa al meglio nelle microstorie locali, che, appunto perché tali, consentono uno studio ravvicinato di uomini e fatti».Nei saggi Guadagnino assume come laboratorio di microstoria prevalentemente la sua città. Canicattì diventa soggetto storico, luogo in cui le vicende individuali, le tensioni sociali e le dinamiche del potere locale riflettono processi più ampi della storia siciliana e nazionale.
Introducendo il primo saggio, egli scrive che l’anonimo diarista può considerarsi un precursore di questa metodologia storiografica:
«Per l’interesse che rivolge agli avvenimenti locali e alle vicende private dei suoi compaesani il diario oggi si presenta come un documento che precorre di un secolo e mezzo quella microstoria inaugurata dalla scuola francese delle Annales, microstoria necessaria per avere una visione storica totale». Questi «annota quanto accade nella comunità circostante, riconoscendo pari dignità di attenzione sia agli eventi politici e collettivi sia alle vicende private come omicidi, abigeati, matrimoni, decessi, in una mistura di cronaca spicciola e storia elaborata su un modulo diaristico».È alla luce della suddetta vision e metodologia che Guadagnino elabora tutti gli altri saggi storici della raccolta.
La sezione storica è costituita, oltre che dal lungo testo cronachistico in apertura del libro, da cinque saggi più brevi ma intensi su opere di microstoria di Gaetano Augello e Salvatore Vaiana riguardanti storie locali settoriali, eventi rilevanti e personaggi notevoli, e da un saggio su un libro di memorie storiche locali di Antonio Insalaco.
Nel loro insieme essi attraversano un arco storico che va dal Seicento artistico di Giacomo Bonanno Colonna al Novecento economico del miracolo dell’uva Italia. Essi costituiscono una significativa testimonianza - meritevole nel tempo della denunciata crisi della storia - dello sviluppo della microstoria locale negli ultimi due decenni.
Fra le storie recensite di più lunga durata troviamo la Storia della Camera del lavoro di Canicattì. Il suo autore, sottolinea Guadagnino, si è addentrato «nei particolari di avvenimenti e personaggi, facendo luce su aspetti inediti e spesso rivelatori della realtà isolana». «La peculiarità e l’importanza dell’attività storiografica» da lui svolta auspicano «il recupero della memoria storica siciliana attraverso un criterio di ricerca “disarticolato e particolare”, applicato a una minuziosa ricostruzione di tasselli musivi intesi a ridurre, nel risultato finale, l’approssimazione di cui peccano tante storie a carattere generale della nostra Isola». Fra gli eventi più drammatici che hanno attirato la sua attenzione un posto rilevante è occupato dalla strage del 21 dicembre 1947, la «strage rimossa» trattata anche nella recensione a La Sicilia delle stragi di Marino.
I personaggi, presentati in opere storico-biografiche, sono un barone, un monsignore e un contadino le cui azioni hanno inciso, per aspetti diversi, in profondità sulla società canicattinese: il barone Francesco Lombardo, un «borghese illuminato»; il monsignor Angelo Ficarra, vescovo dalla «santità reietta»; e il contadino Domenico Messina, le cui «parole poggiate sulla realtà» sono un esempio concreto di filosofia del senso comune e della prassi. Sono tre figure storiche di notevole distanza sociale e culturale ma portatrici nella comunità di alti valori e di iniziative meritevoli: il filantropismo e il mecenatismo del barone, la cultura e la spiritualità del vescovo, l’attività cooperativistica dirigenziale e la lotta per i diritti sociali del contadino.
Il saggio a carattere memoriale analizza una pubblicazione riguardante pagine di storia canicattinese del Novecento. Esso è definito uno «spazio intermedio tra storia e letteratura», in cui viene affrontato il tema dell’apporto della memoria alla microstoria:
«Non si tratta di opera strettamente storica; ma, d’altra parte, non è neanche letteratura. Tuttavia nelle sue pagine scorrono e si mescolano eventi e sentimenti riconducibili all’una e all’altra. È quello che accade alle opere fondate sulla memoria personale quando la memoria diventa finestra aperta sul passato collettivo».E ancora sulla memoria, commentando la frase di Antonio Insalaco: «Questa libreria ha fatto parte della storia di Canicattì», Guadagnino osserva: «Toglierei il passato prossimo e userei il presente, caro Insalaco, la tua libreria è parte della storia di Canicattì, come tutte quelle cose che trapassando nella memoria di chi le ha amate entrano in una specie di eterno presente».
Se la storia, nella prospettiva di Guadagnino, rappresenta il terreno di confronto privilegiato tra fatti e ideologia, la letteratura si configura come lo spazio simbolico in cui tale confronto si fa racconto, visione, conflitto umano incarnato. Il passaggio dalla storiografia alla critica letteraria non segna dunque una discontinuità, ma piuttosto uno slittamento di linguaggio, attraverso il quale le medesime questioni — potere, memoria, verità, responsabilità — vengono interrogate sul piano della narrazione e dell’immaginario (questioni, ci sembra opportuno ricordare, presenti su questo piano ne I filosofi della Quarta Sezione).
Nei saggi di critica letteraria – come d’altra parte nei suoi romanzi – Guadagnino riflette implicitamente sulla funzione del narrare, concepito non come evasione, ma come strumento conoscitivo e critico. La narrazione, per lui, non deve limitarsi a raccontare storie, bensì deve interrogare le zone d’ombra dell’esperienza umana, là dove la storia ufficiale tace o semplifica. Il romanzo diventa così uno spazio privilegiato di esplorazione dell’individuo nel suo rapporto con il tempo, la memoria e il potere.
All’interno della riflessione letteraria Guadagnino non si limita alla narrativa, ma in alcuni saggi estende la propria analisi alla poesia, intesa come luogo privilegiato di condensazione simbolica del rapporto fra individuo, tempo e storia. Se nella narrativa il conflitto storico assume spesso la forma del racconto e della denuncia, nella poesia esso si interiorizza, diventando tempo dell’anima, memoria vissuta, tensione utopica o disincanto esistenziale.
Questi saggi riguardano rispettivamente la narrativa di Leonardo Sciascia e Giacomo La Russa e la poesia di Domenico Turco, Calogero Curto, Vincenzo Restivo e Leonardo Sciascia.
Illustri padri del nobile scrittore sono Giovanni Verga, Luigi Pirandello e Federico De Roberto, i quali «hanno sfiduciato la Storia raccontando l’impotenza umana davanti al suo apparente e illusorio divenire contro cui si infrangono i nobili propositi di chi si adopera per cambiarne il corso». Una tale «convinzione» è la conseguenza di «un immane inganno che la retorica mainstream chiama risorgimento, per il Sud un cambio di potere tanto ricco di promesse, quanto funesto nei risultati».
A contraddire tale convinzione è Leonardo Sciascia (scrittore fustigatore del potere e perciò caro a Guadagnino), il quale «adottando l’illuminismo come filosofia di riferimento, riabilita la storia, restituisce linfa alle idee e nella sua opera l’uomo torna a essere protagonista propositivo». «Alla rassegnazione fatalista» dei suddetti scrittori «subentra la passione ideale» di Sciascia i cui eroi «sono, sì, degli sconfitti ma mai dei vinti»:
«Fra Diego La Matina, che sfida l’Inquisizione, si ritrova ad arrostire sul rogo, Francesco Paolo di Blasi capeggia una rivolta che fallisce e ne paga il prezzo sotto la mannaia, il professor Laurana, che per amore di verità decifra la filigrana del potere politico mafioso, muore di lupara bianca. Ma la narrazione della loro vicenda nelle pagine dell’autore diventa messaggio che invoglia a proseguirne l’opera nella lotta contro ogni forma di potere, che in quanto tale diventa prevaricazione, impostura.»
«Scrittori come Nino Savarese e Leonardo Sciascia ci hanno lasciato pagine memorabili sull’impatto della Sicilia con la guerra, per non dire di altri prodotti letterari più recenti, tra i quali è possibile trovare anche un radicale revisionismo storico che legge quei fatti da una presa di posizione nazifascista.
Quello di Nino Savarese è forse il testo più solido e duraturo che sia stato scritto sul dramma collettivo di quelle torride giornate. Nella sua Cronachetta siciliana dell’estate 1943 realismo, poesia, riflessione filosofica si fondono nell’antica cifra umana che si ridesta e ripropone sempre uguale davanti all’insensatezza della guerra.
Sciascia, invece, con La zia d’America ne ha cavato un racconto più lieve, a tratti brioso, perché tutto è visto con gli occhi di un vivace adolescente di Regalpetra.
Anche Insalaco racconta il periodo bellico a Canicattì attraverso lo sguardo attento del ragazzino che era allora.»
Il «recupero memoriale» però non deve limitarsi al semplice «come eravamo», ma deve essere un «atto di resistenza» come quello riconosciuto da Guadagnino a Giacomo La Russa nel racconto I sepolti vivi sulla lotta di classe degli zolfatari negli anni Cinquanta. Ed è quest’atto che fa di entrambi degli odierni partigiani della memoria e della storia.
«Oggi non esiste più la zolfara, non ci sono più zolfatari: un dato, questo, che induce a usare quel passato, a valersi della Storia per farne metafora spendibile nel presente alla maniera del Manzoni.
Il racconto di La Russa decanta la solidarietà consapevole, la spinta aggregante che Sciascia aveva visto come la novità sociale della zolfara. Questa particolare tematica che I sepolti vivi drammatizza con plastica eloquenza, oggi, fa sì che l’opera non rimanga relegata al rango di recupero memoriale sulla scia di un “come eravamo”.»
Guadagnino individua il valore del racconto di La Russa nella rappresentazione di «un atto di resistenza» culturale, vale la pena rimarcarlo, al drammatico presente caratterizzato dall’assenza di luoghi fisici di aggregazione che condanna la «moltitudine» (pregnante termine di Toni Negri in Impero) globale a un’angosciante condizione di solitudine («la solitudine del cittadino globale» direbbe Zygmunt Bauman):
«In un tempo in cui giorno dopo giorno, passo dopo passo vediamo realizzarsi l’attacco a tutto ciò che crea comunità, aggregazione, appartenenza, identità, con i partiti che da tempo hanno chiuso le sezioni e i sindacati che disertano le piazze, il cittadino ridotto a semplice individuo vede crescere intorno a sé la solitudine e la mancanza di punti di riferimento politici, sociali o comunque solidali».
Purtroppo, conclude Guadagnino, «la Storia ha invertito corso» capovolgendo il concetto di lotta di classe: «L’americano Warren Buffett, noto per essere un ricco tra i più ricchi del pianeta, pare abbia detto: non è vero che la lotta di classe è morta, semplicemente hanno perso quelli che ne facevano bandiera. Cioè hanno vinto loro, i ricchi». Che la lotta di classe non sia morta sembra chiaro al Buffett e, aggiungiamo, ne ha certezza il sociologo Luciano Gallino, per il quale oggi essa non è più quella della volatilizzata classe operaia, bensì dell’élite del «finanzcapitalismo» dominante sulla moltitudine, sulla quale ha pubblicato un saggio-intervista dedicato: La lotta di classe dopo la lotta di classe.
Il tempo dell’anima
Fra i poeti recensiti spicca indubbiamente Domenico Turco per le qualità artistiche, riconosciute dalla critica nazionale e internazionale, e per la profondità di pensiero che gli deriva dalle sue qualità speculative, le quali si innestano nella formazione classica e filosofica.
Nel saggio “L’avventura poetica di Domenico Turco”, introduzione ad Acque lustrali (2003), Guadagnino definisce, valorizzandolo, il percorso dell’autore «un’avventura evolutiva riflessa nelle possibilità della parola». È questo un giudizio estremamente positivo, essendo l’evoluzione spirituale – come vedremo – un concetto che permea, per dirlo con la sua stessa pregnante espressione, l’avventura intellettuale del nostro critico.
Il primo gradino evolutivo è stato individuato nella seconda raccolta poetica di Turco, Numi del sortilegio, non mi dite… (1996), in cui si ha un primo superamento del cosiddetto «limbo della volontà» tipico della prima raccolta, Sottovoce (1994), che viene analizzato alla luce delle tre categorie temporali passato-presente-futuro. Non si tratta, è opportuno precisare, del tempo della storia, che è un tempo sociale, ma di quello esistenziale del poeta, in cui il superamento della precedente condizione soggettiva viene individuato in un liberatorio presente vitale: «questa specie di limbo della volontà si supera nel bisogno di esistere nel mondo e si esprime nelle forme di un’invocazione che, rifiutando l’astratto sentimento del passato e l’altrettanto astratto timore del futuro, vuole attingere linfa nella concreta pienezza del presente».
Acque lustrali, osserva il critico, è permeata da una religiosità che ci sembra riflettere quella dello stesso critico del quale ci è nota la spiritualità ispirata al taoismo:
«una religiosità che coniuga il senso del dolore a una visione di inconsapevole, spontaneo (e appunto per questo autentico) taoismo, per il suo ricongiungersi con l’universo in un rapporto di armonica interdipendenza, culmine di un processo di ispirazione e di pensiero inteso a fare della sofferenza personale la porta di accesso a una trascendenza che, senza negare la materia anzi nobilitandola, rimpicciolisce fino all’insignificanza il montaliano “male di vivere”».
Nel saggio “Oltre la prigione dell’io”, recensione della raccolta poetica Oltre l’orizzonte (2010), egli sottolinea che per l’autore di questa silloge la poesia è «un’arte che lungi dal naufragare nell’immaginario vuole l’uomo collettivamente partecipe dei destini della storia e soggettivamente vigile nelle scelte del suo privato» (corsivo nostro). Si tratta di una nuova tappa nella riflessione del poeta: quella dell’arte che valorizza la storia collettiva.
E più avanti, citando il saggio Il mondo eterno (2006), Guadagnino si sofferma sulle relazioni fra storia e utopia e fra utopia e poesia. Egli osserva che in Turco l’utopia è un concetto che
«non deriva dalla categoria delineata da Ernst Bloch (il filosofo ebreo tedesco che di fronte alle catastrofi belliche del secolo scorso ha riaffermato il valore della speranza operante all’interno della storia attraverso il senso dell’utopia) ma che ne ha tuttavia la stessa funzione dinamica di stimolo alla ricerca di una dimensione confacente alla totalità dell’uomo. Bloch non rientra tra gli autori frequentati da Domenico.»
Più adeguato alla formazione culturale del poeta-filosofo è il mito di Atlantide, che egli innalza a «simbolo di un’utopia perenne». Nel suddetto saggio precisa che
«Atlantide è il continente della coscienza dimenticata, filo conduttore di tutte le aspirazioni dell’umanità che rappresentano anche risposte all’anelito al trascendente, esigenza inadempiuta di rinnovamento interiore. L’affermazione della valenza mitica e mitologica della stessa Atlantide non ne nega la possibile esistenza storica, né il fatto che continui a esistere a tutt’oggi, come progettualità e come idea che sprona all’azione, votata a crescere sempre più in avvenire, in quel luminoso crogiuolo del passato, del presente e del futuro, che è la sfera del tempo.»
Il tempo collettivo in versi
In un diverso versante del rapporto poesia-storia troviamo la “Poesia della memoria” di Lillo Curto, lo scultore-poeta che
«ci offre la più corposa e vivida rappresentazione di personaggi, usanze, modi di dire, gioie e miserie del popolo canicattinese. Una ricerca del tempo perduto. […]
Sulle ali di una memoria fresca come quella di un fanciullo e assistito da una vena incontenibile, il nostro poeta-scultore ci porta alla rivisitazione di un mondo che è recupero memoriale per chi è suo coetaneo e acquisizione di patrimonio identitario e culturale da salvare per i più giovani. […]
Anche quando trae ispirazione da ricordi personali, le immagini sono schegge di memoria collettiva e l’evento testuale assurge a campione di un’epoca e di un clima in cui vive l’anima profonda canicattinese, che poi è quella dell’universo contadino. La sua poesia esprime valori e sentimenti che solo negli ultimi anni la cultura locale va recuperando con opere sia storiche che letterarie. […]
Il nostro poeta non si ferma alla rievocazione di tipi che facilmente si prestano a vivacizzare il microcosmo paesano: fa nome e cognome anche di persone meritevoli di sopravvivere nella memoria cittadina.»
Altro poeta canicattinese presentato è l’arciprete Vincenzo Restivo, il cui «mondo letterario si muove nel perimetro del paese, […] in cui gli uomini, prevalentemente contadini, vivono e si muovono dovendo affrontare i problemi e le difficoltà del quotidiano», come si evince dall’esemplificativo aneddoto memoriale sul contadino e il temporale.
Ma nella poesia dell’arciprete c’è ben altro: la dimensione spirituale. In tal senso il nostro prefatore non manca di rilevare il loro «terreno comune» di riflessione sui «temi della spiritualità, della religiosità, della trascendenza», «temi ricorrenti» nelle sue poesie.
Il poeta racalmutese e la storia siciliana
Non possiamo concludere questo paragrafo sulla poesia senza far cenno a Sciascia, un autore, come si è in parte visto, assai presente nel libro di Guadagnino (si vedano nel libro anche la relazione “Leonardo Sciascia e la contraddizione” e il saggio “Un professore siciliano a Ginevra”, che contiene inedite lettere del racalmutese al grottese Tommaso Riccardo Castiglione, storico e docente di letteratura italiana all’Università di Ginevra).
Ma in questo capitolo ci interessa lo Sciascia meno noto de La Sicilia, il suo cuore, trattato da Guadagnino nel saggio “La breve stagione poetica di Leonardo Sciascia”. Si tratta dell’unica silloge poetica del racalmutese, che però «non è la sola testimonianza dell’interesse che Sciascia giovane ebbe per la poesia»; infatti, egli fu curatore dell’antologia Il fiore della poesia romanesca.
Comporre poesie sulla Sicilia, osserva Guadagnino, ha una stretta relazione con la storia dell’Isola e con il carattere dei suoi abitanti:
«Fare poesia sulla Sicilia diventa subito per il poeta un processo di desublimazione per diffidenza nei confronti del passato e della sua rappresentazione mitica, storiografica e letteraria. “Diffidenza” è una delle parole che Sciascia userà, in Sicilia e sicilitudine, per designare il carattere dei siciliani: “Si può dunque dire che l’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita – paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo – della collettività e dei singoli.” Ma questa “diffidenza” è storicamente determinata dal dominio violento e subdolo dei colonizzatori, che partendo dall’antichità arrivano a Patton e Montgomery. “La paura ‘storica’ è diventata dunque paura ‘esistenziale’.»
Il percorso critico di Guadagnino compie un ulteriore passaggio quando dalla parola scritta si apre al linguaggio dell’immagine, affrontando la critica d’arte.
I saggi di critica d’arte occupano uno spazio considerevole nel libro; da essi emergono, fra l’altro, interessanti riflessioni sul rapporto fra arte e «grado evolutivo» umano (concetto, quello di evoluzione, caro all’autore e che ritorna spesso nelle sue riflessioni), fra arte e memoria e fra arte e storia.
Un primo gruppo di essi riguarda le acqueforti di Gaetano Lo Manto e la fotografia di Ezio Ferreri su Villa Firriato; un secondo gruppo, che abbiamo raccolto sotto il titolo “Memoria, storia e metafisica nell’arte”, si riferisce alla fumettistica di Pietro Campo, alla pittura di Salvatore Fratantonio e alla grafica pittorica di Calogero Turco.
Due baroni e l’arte: visioni divergenti
L’arte è la vera ricchezza dell’uomo, afferma Guadagnino; ne avevano coscienza e l’hanno coltivata i baroni canicattinesi Agostino La Lomia e Francesco Lombardo, ma con modalità assai diverse.
Il gaudente barone Agostino La Lomia la coltivò da scialacquatore di ricchezza materiale e persona di infimo «grado evolutivo», «un uomo di ordinarie risorse spirituali, tendenzialmente malinconico e con periodiche esplosioni maniacali, propizie a quelle sue trovate stravaganti che nei loro contenuti non oltrepassarono mai il livello dei sogni di un magliaro di successo». La passione per l’arte lo induceva da un lato a «presenziare al festival del cinema di Venezia» e a «farsi fotografare con Gina Lollobrigida», dall’altro a strimpellare la chitarra.
Diversamente l’ha vissuta il barone Lombardo il quale, sebbene fosse noto per il suo pragmatismo economico generatore di ricchezza materiale, era fornito di buon gusto artistico.
«A seconda del grado evolutivo di chi la possiede, esistono diverse categorie di ricchezza. C’è quella del bruto cumulo di energia, che nel più volenteroso sforzo finalistico diventa mezzo per fare altra ricchezza; e c’è quella che fiorisce nel bello dell’arte. Il Rinascimento fu un miracolo dello spirito prodotto e assecondato da questo tipo di ricchezza, al punto che il committente di un’opera ne era considerato il padre più dello stesso artista. Il barone Lombardo ebbe sensibilità estetica ed ebbe anche modo di mostrarla traducendola in mecenatismo, il mecenatismo della committenza.»
Fu questa sensibilità che lo indusse ad affidare la costruzione della Villa Firriato di Canicattì all’architetto Ernesto Basile, suo amico personale, che la realizzò nel 1897 in stile Liberty.
Un’architettura di Basile: Villa Firriato
La Villa Firriato fu oggetto sia dell’interesse artistico del palermitano Gaetano Lo Manto e del canicattinese Ezio Ferreri, sia dell’aspra critica di Guadagnino, il quale mal digeriva le condizioni in cui versava. Purtroppo, denuncia amaramente, «lo stato di abbandono in cui versò per anni Villa Firriato fece sì che, nel periodo dei fasti economici dell’uva Italia, divenisse simbolo architettonico di un modo di pensare inteso solo al guadagno e insensibile alla bellezza».
Nel 1980, il Lo Manto realizzò due acqueforti cui seguì una nota di Guadagnino che così racconta il loro incontro:
«[Lo Manto], giunto da Palermo, mi si presentò a casa in un pomeriggio di febbraio. Si trovava per la seconda volta a Canicattì, famosa per il colore della sua uva e per l’invadente rapidità della sua ascesa economica. […] In macchina uscimmo alla ricerca di un soggetto che ancora una volta giustificasse la sua ossessione o di un residuo d’identità (perduta) della vecchia Canicattì contadina. Per caso arriviamo a Villa Firriato […] La Villa ci appare all’improvviso come un tempio di antiche sconosciute divinità, abbandonato dagli uomini e protetto da una maestosa esuberanza vegetale. […] [Un contadino] c’informa che la Villa, essendo disabitata, è meta frequente di sciacalli che la saccheggiano portando via tutto quanto è asportabile.»
Sei anni dopo, toccò al Ferreri con la mostra fotografica “La ricchezza intelligente”: nella relativa nota critica Guadagnino rispolverò le peggiorate condizioni in cui versava la Villa:
«Villa Firriato, o l’idea di villa che esprime, è estranea all’habitus mentale canicattinese dominante. Villa Firriato, in realtà, è un topos culturale, un microcosmo teatrale delegato a rappresentare una concezione della vita come mera proiezione del bello e nulla oggi è più lontano dalla mentalità corrente, per la quale la villa esiste soltanto nell’accezione di “bene immobile”. […] … additare un modello ideale di cultura a chi in questi ultimi anni ha visto la ricchezza passare su Canicattì, effimera ed inutile come una meteora, che scompare lasciandosi dietro una lunga e persistente coda d’ipoteche.»
Oggi, con la ripubblicazione di quelle due note critiche, l’autore fa una meritoria opera di memoria analoga a quella di Pietro Campo nel fumetto su Canicattì intitolato Pronto Marescià, Don Calogero Sugnu…
Memoria, storia e metafisica nell’arte
Nel commento di Guadagnino a questo fumetto emerge un tema a lui caro (già presente ne La via breve): il rapporto fra memoria e mito.
«A portarsi il paese natale per decenni dentro la memoria si finisce per farne un luogo mitico, al riparo dal mutare inesorabile del tempo.
E questo ricavare luoghi reali da una dimensione personalmente mitica, mi ha riportato ai miei propositi di ricostruire Canicattì com’era più di un secolo prima nel mio cimentarmi col frate carismatico della Madonna della Rocca. […]
Nello spazio della memoria Campo ha conservato intatto anche l’idioma originario, con cui fa parlare i propri personaggi con effetti incisivi e tratti di comicità camilleriana.»
Sul rapporto fra arte e storia, invece, ci viene incontro un passo di una recensione di Guadagnino a una mostra di pittura di Salvatore Fratantonio:
«Parafrasando il vecchio Hegel: l’arte è un riflesso dell’essere nel tempo. Il richiamo al filosofo tedesco sorge spontaneo davanti al titolo della recente mostra di Salvatore Fratantonio […]: “Anni ’70 spirito del tempo suggestioni pop”. Con esso l’artista e la curatrice hanno voluto focalizzare la nostra attenzione sì sulle opere, ma più in particolare sulla connessione genetica tra pittura e Storia, usando i quadri per evocare gli anni ’70 e viceversa. […] Sono opere che nel loro nucleo originario rivelano la qualità e la misura del rapporto del pittore con la storia. Un rapporto quasi mai diretto ed esplicito (alla Guttuso, per esempio), ma soggettivo, trasversale.»
In tutt’altro versante è da collocare la produzione di Calogero Turco, la cui grafica d’arte Guadagnino colloca nel «simbolismo» e nella quale riscontra «indizi esoterici». Essa, per la forte presenza di «miti e simboli» e per la dimensione filosofico-metafisica che vi si riscontra, «risulta strettamente connessa ai temi della poesia» e della filosofia del fratello Domenico.
Le connessioni fra discipline fin qui riscontrate emergeranno ancora nelle riflessioni seguenti sul rapporto fra letteratura e diritto.
Elementi e giudizi di natura giuridica sono presenti ed espressi in diverse parti del libro: nei due saggi riguardanti i processi penali contro i contadini di Canicattì e contro i minatori di Favara, entrambi dibattuti in Corte di assise di Agrigento rispettivamente nel 1952 e nel 1956; e nel saggio sulla pena di morte “Dai decollati a Beccaria”, che ha un taglio anche antropologico e storico. Ma testi in cui emergono riflessioni più specifiche e approfondite sul diritto sono due relazioni “Giustizia e diritto” e “La letteratura, il diritto e l’avvocato”.
“Giustizia e diritto” affronta il tema del rapporto fra giustizia e diritto partendo dai classici, dall’Antigone di Sofocle al Critone di Platone.
«Mentre il senso della giustizia è legato al sentire profondo correlato al dinamismo della storia che forgia i contenuti della coscienza e i valori collettivi, il diritto è cristallizzato nell’immutabile positività della norma, che, per quanto possa essere “interpretata” attraverso la giurisprudenza, non potrà mai perfettamente e completamente contenere le ragioni della giustizia.»
“La letteratura, il diritto e l’avvocato”, relazione al convegno “La dimensione del lavoro al tempo del Jobs Act”, ci consente di accennare al rapporto fra l’antica passione di Guadagnino, la letteratura, e la sua professione, l’avvocatura.
«Se la letteratura è narrazione del fluire della vita, il diritto ne rappresenta l’arresto nella cristallizzazione normativa, senza la quale non ci sarebbe nessun ordine costituito. Se la letteratura riflette le istanze e le pulsioni innovatrici del sentire, il diritto tende a fissare il cambiamento in stabilità.»
È questa una distinzione che sovente attrae l’attenzione di ascoltatori e lettori, in particolare degli uomini di legge (è accaduto di recente nella presentazione del suo romanzo Tindaro La Grua nel tribunale di Agrigento). E questo accade, precisa Guadagnino, perché
«il personaggio letterario è una finzione per esprimere ciò che il singolo individuo nella propria intimità percepisce ma non ha il coraggio o la spregiudicatezza di confessare alla collettività, perché ne teme la disapprovazione e la censura. L’espediente estetico consente allo scrittore di esprimere quel particolare sentire che, riconosciuto come vero dai lettori, comincia a imboccare la via della legittimazione collettiva per venire incluso nel territorio della giurisdizione, dove il diritto non potrà più non tenerne conto, anche sotto forma di tutela della libertà di espressione.»
Infine, in questo saggio è presente un concetto che, come si è accennato, è fondamentale nella biografia e nel pensiero di Guadagnino ed è altresì introduttivo del paragrafo successivo: l’utopia. Ne riportiamo di seguito la riflessione:
«Il rapporto tra letteratura e diritto appare come la classica cartina di tornasole che consente di misurare il grado di autoritarismo e democrazia in un determinato periodo storico. Il contrasto tra le due entità si attenua quando il potere costituito è più propenso a recepire le istanze sociali aprendosi al riformismo. Con maggiore intensità questo avviene nei periodi rivoluzionari, quando l’utopia sociale scende sul piano storico e l’intellettuale, lo scrittore, il filosofo diventano l’alter ego del legislatore. L’illuminismo e la Rivoluzione francese rappresentano l’esempio più eloquente di tale simbiosi. Ma l’individuo pensato dai philosophes è un individuo integro, positivo, pieno di desideri che possono essere soddisfatti da quello che offre la terra, confida nella dea Ragione e il suo sogno non è alienazione dalla realtà, ma programma e statuto di libertà dalle pastoie della superstizione. Il suo regno ideale può stare a fianco delle utopie letterarie che si chiamano Città del sole, Utopia, Nuova Atlantide, antesignane di una new age in cui si sarebbero realizzati la pace, il benessere, l’armonia universali.
Con l’entrata in crisi del soggetto concepito dall’illuminismo, il rapporto tra letteratura e diritto si allarga all’inverosimile, determinando il passaggio dall’utopia alla distopia, neologismo, questo, coniato in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocento e divenuto sempre più familiare con la diffusione dei romanzi di Orwell, Aldous Huxley e Ray Bradbury.»
Il passaggio dall’utopia alla distopia segna una frattura epocale, che ridefinisce il ruolo dell’intellettuale, dello scrittore e del giurista, aprendo uno scenario nuovo e problematico.
6. L’UTOPISTA ALL’ALBA DEL TEMPO DISTOPICO
Il pensatore militante
Sarebbe riduttivo concludere questo excursus sull’autore limitandosi alla ricognizione dei suoi molteplici ambiti di impegno culturale, senza metterne in luce la finalità unitaria e convergente.
Guadagnino, infatti, non è un intellettuale astratto, chiuso nella torre d’avorio del puro pensiero, come potrebbe superficialmente apparire, ma un pensatore militante orientato alla trasformazione del presente.
Il suo è un pensiero che si manifesta attraverso gli strumenti oggi ancora accessibili al pensatore militante — pubblicazione e presentazione di libri, saggi su riviste, relazioni convegnistiche, lectio magistralis, dibattiti pubblici — e che propone un duplice percorso di cambiamento: da un lato l’evoluzione individuale, dall’altro la rivoluzione culturale collettiva, quella che egli stesso definisce «l’utopia del pensiero», elaborata dai filosofi della cosiddetta Quarta Sezione di Cabiria.
Su questo doppio binario dovrebbe muoversi, nel nostro tempo, un “movimento reale” capace — per riprendere un’espressione marxiana — di «abolire lo stato di cose presente».
All’interno della produzione intellettuale di Guadagnino si possono individuare due opere cardine, ciascuna emblematica di una delle due direttrici di questo progetto: Trasmutazione, la cui forma poetica si addice alla dimensione dell’evoluzione interiore, e I filosofi della Quarta Sezione, opera narrativa che consente una trattazione accessibile e insieme rigorosa di complesse questioni filosofiche e politiche. A tali testi si rimanda per un approfondimento sistematico del suo pensiero.
La critica al potere e alle insidie del tempo presente
Numerosi aspetti della critica di Guadagnino al potere e allo “stato di cose presente” emergono in modo diffuso nel volume, in particolare nei saggi “Giustizia e diritto”, “Un filosofo per l’età presente” e “L’arte come sismografo dei tempi”. Essi affrontano nodi cruciali della contemporaneità, quali i rapporti fra globalizzazione e tecnica, Occidente e resto del mondo, scienza e potere, tecnica e natura, utopia e distopia.
I due fenomeni centrali del nostro tempo — la globalizzazione e l’inarrestabile, accelerato sviluppo della tecnica — hanno prodotto una profonda crisi della polis, intesa come «struttura ideale entro cui concepire e collocare libertà, proprietà, equità, responsabilità e altri valori».
Questa crisi ha travolto l’individuo, oggi «sempre più abbandonato a se stesso da quelle istituzioni che un tempo costituivano punti di riferimento fondamentali — Stato, partiti, sindacati», come ha lucidamente osservato Zygmunt Bauman.
Guadagnino individua il principale promotore della globalizzazione post-bipolare nell’Occidente a egemonia statunitense.
Usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno esercitato un potere crescente di giudizio sugli altri Stati, arrogandosi il diritto di stabilire chi rispetta i diritti umani e chi no, con la conseguente pretesa di interferire nelle politiche interne dei Paesi non allineati.
Si tratta, secondo l’autore, di un uso strumentale e opportunistico dei “diritti umani”, nonché delle categorie di oppressore e liberticida, funzionali a una logica di dominio imperialista.
È opportuno aggiungere che la nascita e il progressivo rafforzamento dei BRICS hanno messo seriamente in crisi questa forma di globalizzazione unipolare, contribuendo a smentire la tesi, ideologicamente interessata, della “fine della storia”.
Oggetto di critica è anche la subordinazione della scienza al potere, laddove un tempo essa rivendicava con forza la propria “libertà d’indagine”:
«Nell’era della globalizzazione si verifica un fenomeno inquietante […]: gli scienziati stanno occupando il posto lasciato dai teologi. Ieri erano questi che approntavano le giustificazioni ideologiche ai soprusi del potere. […] Oggi a fornire la stessa giustificazione, a un potere ugualmente iniquo, sono quegli scienziati compiacenti che con un termine storicamente significativo possiamo definire “collaborazionisti” […]. E, grazie al connubio di scienza e potere, ci avviamo verso una società in cui non saremo più padroni del nostro corpo, una società in cui sarà l’élite governante a decidere quanto e come dobbiamo vivere, quando e come dobbiamo morire.Le distopie profetizzate da scrittori come Orwell e Huxley, nella loro dimensione letteraria, sono costruite dal potere politico e supportate dal sapere scientifico. Prevederle non è stato sufficiente a esorcizzarle. Quei testi che fino a ieri ci sembravano curiosità fantascientifiche ora incombono sempre più sulla vita di tutti i giorni.»
Muovendo da una prospettiva analoga, Guadagnino riprende e attualizza la riflessione di Hans Jonas, in particolare Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), per denunciare il dominio crescente e potenzialmente distruttivo della tecnica sulla natura:
«La sua riflessione muove da alcune considerazioni di fondo: la principale è che la tecnologia ha trasformato la potenza dell’agire umano e reso vulnerabile la natura. Prima dell’avvento dell’era tecnologica l’uomo era un elemento contenuto dentro l’ordine della natura, sul quale non poteva interferire, oggi la natura è diventata oggetto della sua potenza e ne può essere danneggiata e addirittura distrutta.»
Il dominio smisurato della tecnica segna così la fine dell’utopia coltivata dalla generazione del ’68 e l’ingresso in un orizzonte sempre più chiaramente distopico.
«L’utopia con la quale allora ci prefiguravamo un futuro in cui i nostri più nobili ideali di amore e di democrazia sarebbero diventati realtà. […]Allo slogan marxista “cambiare il mondo” ne era stato aggiunto un altro preso da Rimbaud che diceva “cambiare la vita”; quest’ultima prospettiva di futuro immetteva l’individuo in quanto tale nel laboratorio della Storia. E questo avvenne in maniera così categorica e massiva che nel momento in cui cominciarono a sgretolarsi i programmi rivoluzionari tantissimi sessantottini rivolsero i loro interessi alle filosofie orientali che consentivano di continuare a coltivare il senso dell’utopia nel lavoro su di sé, nell’ascesi yogica o meditativa come vie per cambiare se stessi.
Ma gli anni ’70, ad onta degli eventi che ne funestarono il clima, rimangono anni di un qualcosa che al confronto con l’oggi non esitiamo a chiamare entusiasmo collettivo, perché non venne mai meno la fiducia nei valori umanistici, valori in grado di plasmare un orizzonte in cui era ancora possibile intravedere “il sol dell’avvenir”. La mutazione involutiva tra l’allora e l’oggi può essere sintetizzata nel passaggio dal senso dell’utopia alla realtà della distopia. L’uomo da soggetto è diventato oggetto, l’alienazione è peggiorata in reificazione. La tensione al cambiamento di coscienza che scaturiva dalla volontà individuale ora è imposta da una forza esterna e il microchip tende a sostituire la coscienza. Il transumanesimo è in realtà un antiumanesimo, che rimpiazza l’evoluzione spirituale con la costruzione di un essere artificiale.»
Il transumanesimo, scrive ottimisticamente lo storico del futuro Harari in Homo Deus, non avverrà in un tempo breve ma «in un futuro non troppo lontano potremo creare superuomini in grado di surclassare gli antichi dèi non per gli oggetti posseduti, ma per le loro facoltà corporee e mentali». Intanto esso è già iniziato «attraverso un’innumerevole quantità di azioni abituali»:
«Ogni giorno milioni di persone decidono di delegare ai loro smartphone una porzione più grande di controllo sulle loro vite o cercano un nuovo e più efficace farmaco antidepressivo. Nella ricerca della salute, della felicità e del potere, gli umani cambieranno con gradualità prima una loro caratteristica e poi un’altra e un’altra ancora, finché non saranno più umani.»
In un tempo così orientato e al contempo disorientante, si pone allora la domanda decisiva: esiste ancora uno spazio per una nuova utopia umanista?
A questo interrogativo risponde, con cauto ottimismo, Marino, il quale, pur confidando nelle potenzialità future della tecnica, insiste sulla necessità di preservare la memoria storica e culturale dell’umanità:
«se la storia dell’evoluzione darà modo a un nuovo tipo di essere umano di nascere e di affermarsi, sarà bene per l’Uomo che tale nuovo tipo di uomo sia migliore, non peggiore, di quello di prima. E questo avverrà soltanto se nella sua nuova mente troverà posto, e attivamente, la memoria sintetica di tutta la precedente civiltà.»
Quanto a Guadagnino, una risposta esplicita a tale quesito non è rintracciabile in L’Anonimo di Canicattì. Il lettore potrà tuttavia cercarla nel romanzo I filosofi della Quarta Sezione, dove una forma originale di utopia — l’«utopia del pensiero» — viene messa in pratica dai filosofi di Cabiria-Canicattì, configurandosi come resistenza critica e come possibilità di riscatto umano e culturale.
L’Anonimo di Canicattì si chiude con la nota intitolata “A proposito di libri”, che può essere letta come una riflessione sull’esserci nel mondo dell’autore, una sorta di autoritratto intellettuale tracciato in filigrana. Oscillante fra caso e necessità, essa restituisce il senso profondo dell’intera raccolta e, più in generale, della traiettoria esistenziale e culturale di Guadagnino.
L’autore apre la nota dichiarando che questo libro «nasce per caso» e la conclude con un’affermazione che attribuisce ai veri protagonisti dell’opera — i libri — un valore eminentemente vitale:
«Più passa il tempo e più mi accorgo che di vita ne occorre quanto basta per amare i libri, e amando i libri si ama inevitabilmente la vita».
Si tratta di una chiusura che assume il valore di un inno alla vita, animata dai libri in quanto depositari di una cultura che non è mero ornamento, ma strumento di riscatto, di libertà e di emancipazione critica. Quei libri che, per dirla con le parole stesse dell’autore, «inducono al pensiero», «seminano inquietudine» e possiedono un’autentica «carica eversiva».
Se i libri sono vita, allora leggerli e diffondere l’amore per la lettura diventa un atto etico e civile, tanto più necessario in un tempo come il nostro, povero di lettura e di senso critico, non per accidente, ma per effetto di un processo di induzione sistematica operato da una «élite governante» di respiro mondialista. Un’élite che, attraverso la manipolazione delle coscienze, esercita il proprio dominio su un’umanità progressivamente trasformata in gregge consenziente, mentre una tecnologia sempre più avanzata e sempre più eterodiretta contribuisce a renderla devitalizzata, o addirittura — per riprendere un termine caro a Harari — «superflua».
In questa prospettiva, l’intera opera di Guadagnino
si configura come un gesto di resistenza culturale:
un invito a restituire centralità al pensiero
critico, alla memoria, alla parola scritta, e dunque alla possibilità stessa di un futuro
autenticamente umano.
Canicattì, 25 dicembre 2026
Salvatore Vaiana

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