17.11.09

SALVATORE VAIANA, La mafia secondo gli organi di pubblica sicurezza di Favara

Il 30 giugno 1874 il prefetto di Girgenti, L. Berti, inviava a S.E. il ministro dell’interno una relazione sulla mafia, nella quale dichiarava che Favara era uno dei «centri principali di maffia» della provincia di Girgenti.
La fonte primaria di informazione del Prefetto era la Delegazione di P.S. di Favara, la cui corrispondenza è fondamentale per ricostruire il quadro della presenza della mafia in questo centro.
Fra la ricca documentazione consultabile presso l’Archivio di Stato di Agrigento segnaliamo una lunga lettera del delegato di P.S. che, data la sua importanza, riportiamo integralmente per sottoporla all’attenzione di lettori e studiosi. La missiva, che porta la data del 4 settembre 1874, fu inviata da Favara il 4 settembre 1874 dal delegato di P.S., «dirigente delle Squadriglie miste per la repressione del malandrinaggio», al Prefetto della provincia di Girgenti ed ha come oggetto “Notizie sulla mafia”.
Il Delegato non può non ammettere una diffusa criminalità sul territorio che chiama mafia:

«Purtroppo anche in questo Comune e forse più che in altri della Provincia e da più lunga era (lo provano i nefandi fatti di sangue e di rapina che in ogni tempo e con istraordinaria audacia vi si sono consumati ed i verdetti, mostruosi [?], d’incolpabilità che vi han fatto seguito) esiste la mafia»

Una mafia però che non avrebbe, a suo dire, un’organizzazione e un codice:

«una mafia non ordinata ad associazione, almeno attualmente, né retta da norme fisse, ma esiste e ciò che è peggio innata e generale».

Questa visione razziale e totalizzante è così espressa:

«Qui dal più alto al più basso, meno rare eccezioni ma veramente rare, tutti sono mafiosi, se per mafiosi riteniamo coloro, non solo che, [...] a farla da testimoni a lor carico, che, offesi o testimoni, non dichiarano alla giustizia il vero sui reati che patirono o presenziarono o de’ quali ebbero altrimenti conoscenza, ma che eziandio, estranei affatto all’accaduto, mettono ogni mezzo, diretto o indiretto, perché la violazione della Legge resti ignota, perché il colpevole ne vada impunito.
E ciò proviene dall’essere, mi si permetta l’espressione, incancrenite le pervertenti massime: «che sia infame chi accusi chicchessia! «che il morto è morto e debba pensarsi a salvare il vivo!! «che il far dichiarazioni alla giustizia, che possan nuocere misfattere ed il non farle, ancorchè false per giovargli, sia disonore!!!
»

Di questa cultura mafiosa sono impregnati perfino coloro che hanno ricevuto «una civile educazione ed una colta istruzione» cioè le persone appartenenti alla «classe che appellasi civile ed eletta» che rilascia certificati di buona condotta ai mafiosi che tiene in servizio nelle loro proprietà:

«Pur le persone che vantansi e son difatti credente amiche dell’ordine, che veramente sarebbero incapaci di far direttamente il benché minimo male sia privato che pubblico, che vivono in agiata condizione, che han ricevuto una civile educazione ed una colta istruzione, ritengonsi lese nell’onoratezza, ove dicasi o credasi o possa pur solamente pensarsi, che, richiesti, abbian dato o darebbero una cattiva informazione, fosse pur eziandio sul soggetto più pernicioso e tristo, ed anche questi, se invitati vi sono, fano tutto per agevolarlo. Si è veduto e vedesi tuttodì ognuno e specialmente quella classe che appellasi civile ed eletta, spiegare [con] zelo, ogni interesse, ogni impegno, sia per [smen]tire a voce presso le autorità, individui temibili, sia per appor firme a certificati che attestino della buona loro condotta; e più nero è il soggetto, più intensa divien l’attività che spiegasi per favorirlo.
Le rare eccezioni poi, da me sopraccennate, son formate da quelli che, nell’intimo, ma nel più segreto intimo del cuore, godrebbero vedendo il reo punito e la società purgata di tanti tristi, ma neppur essi metterebbero un dito perché la punizione succedesse al delitto, per quanto il delitto fosse grave, per quanto il colpevole fosse facinoroso. E questi, che, non coll’intenzione, ma col fatto, son pure dannosi, no ho voluto passarli sotto silenzio, ma invece accennarli, onde indurne la diretta conoscenza che la mafia è qui così prepotente e temuta da poter pervertire il più retto senso morale, da [...] eziandio agli ottimi, ai ricchi, agli assolutamente indipendenti; né v’ha infatti proprietario, per quanto buono, che non tenga ai suoi servizi, uno o più mafiosi, sia come campiere, sia come castaldo, sia come guardiano nelle zolfare, ed anzi, generalmente, il precipuo requisito ad ottenere prestissimo uno di tali impieghi, si è l’essere stato sanguinario, grassatore, ladro, insomma galeotto, in conclusione, come qui dicesi, persona che abbia rispetto!»

Ed ha permeato perfino l’Amministrazione comunale

«Né debbo, per Dio, tacerlo, ché mancherei al dover mio, la mafia è penetrata, credo solo colle sue intimidazioni, nelle pubbliche amministrazioni e precisamente in quella comunale, tanto vero che giammai, un processo, né per sangue, né per rapina, tuttochè il reato fosse stato audace, feroce e pubblico, tuttoché il reo fosse conosciutissimo e fors’anco confesso, né per reati d’altra specie e sinanco per ammonizione, è stato corredato d’un certificato di cattiva condotta sul conto dell’accusato. Se quest’ultima fu dubbia od equivoca dicesi francamente “buona” se fu triste e ciò è notorio, non si giunge alla spudoratezza d’attestarla “buona” ma o si tace assolutamente o si dichiara che l’individuo non era prima conosciuto. Da questo sistema hanno promanato moltissimi de’ verdetti mostruosi che si son lamentati, applicando i giurati, in buona od in mala fede, moltissima importanza a questi certificati che non sono poi altro che il prodotto o della tristizia o della paura di coloro che ha dalla legge l’incarico di rilasciarli».

Non associazione mafiosa dunque, ma mafiosità cromosomica:

«Associazione di mafia, però, come ho già detto, qui non esiste, né sonvi regole fisse per l’esercizio della medesima, né caporioni cui altri dipendano; né ve n’ha bisogno davvero in questo Comune ove si è mafioso per educazione, per abitudine, per predilezione o per necessità, dappoichè mafioso è il padre, mafioso il fratello, mafiosi i parenti, i vicini, i conoscenti, dove mafiosa è, direi quasi, l’atmosfera in cui respirano.
La mafia adunque è in Favara una seconda natura e si manifesta col non denunziare il reato sofferto e molto meno il colpevole che quasi sempre, o per fatti materiali o palpabili o per intuito o per coscienza, si conosce, avendone in mira la vendetta; col non fornire alla giustizia gli elementi e le prove del reato di cui altri fu vittima e che pur si hanno; col favorire del colpevole la fuga e la latitanza; collo interessarsi presso l’offeso, con consigli che suonano minaccia, perché no denunci il fatto o ne nasconda l’autore; col far pressioni, o con preghiera o con doni o con minacce, verso i testimoni e financo verso i giurati ed i giudici; insomma coll’intralciare in tutti i sensi le vie alle autorità che debbono indagare, scoprire e denunziare ed a quelle che debbono punire
».

Ecco in proposito il racconto di «un fatto palpitante d’attualità» a supporto dell’omertà diffusa e complice, del non riconoscimento della legge e del codice della vendetta:

«Ier mattina, sul far del giorno, un colono di Favara, veniva steso cadavere nelle proprie terre, in contrada Pioppo, territorio di Girgenti, con due colpi di fucile a bruciapelo. Dalla ispezione locale, fatta da me stamane, si deterge che l’assassino attendeva la vittima al varco, nascosto in un lieve avvallamento costeggiante le terre stesse. Dunque sapeva che la vittima doveva lì recarsi ed in quell’ora, dunque doveva esservi una grande nimistà la quale non dovrebbe essere ignota alla famiglia, ai parenti. La terra è fiancheggiata pure, ed a lieve distanza del luogo ove fu trovato il cadavere, da un viottolo che è molto battuto, come quello che dal paese mena a moltissime proprietà campestri. Ebbene, quel cadavere è rimasto tutt’ieri là esposto alla pubblica vista senza che anima viva ne abbia fatto motto, non dirò alle Autorità, ma neppure alla famiglia dell’estinto e fu solo la scorsa notte, quando la povera moglie, non potendo più resistere alle perplessità ed alle angosce sulla sorte del marito che alla solita ora non era ritornato nel seno della famiglia, spedì al podere due altri parenti, che si seppe il misfatto. L’estinto era pure un buon padre di famiglia, laborioso ed economo, senza vizi di sorta, che oggi lascia alla moglie e tre figli, uno nato da soli otto giorni, , una misera sostanza che andrà a deperire, mancandovi la di lui attività ed esperienza; insomma per la di lui morte è imminente la miseria per la moglie e pei figli, eppure né la moglie, né il fratello, né la madre, né la suocera, né i cognati han dato il benché minimo filo di luce sul misterioso assassinio; nulla, assolutamente nulla, per quanto premurose, insistenti, siano state le mie sollecitazioni; e quelle fatte più tardi dall’Autorità giudiziaria, per quanto sia pur nella logica, e quest’è anche la pubblica opinione, che qualcuno dei parenti, e specialmente o la moglie o la madre o il fratello dovesser godere la di lui confidenza e quindi conoscere se avesse da tempo o da fresco qualche inimicizia.
Per chiunque vi rifletta, non può o meno di vedervi in tutto ciò l’opera della mafia! L’assassinio dov’è esser perpetrato da un audace mafioso forte del suo coraggio e del panico che ispirava. Il silenzio de’ passanti è l’effetto della massima “chi è morto è morto”, [...] quello poi della famiglia od è figlio pur del timore d’altri danni o cova il desiderio della vendetta! Dopo due mesi, sei, un anno, troverassi un altro cadavere, forse pur steso in un campo, o gettato in un burrone, o sul lastrico di una via. L’autore ne sarà pur ignoto. Potrà forse affermarsi che sia stata la vendetta de’ parenti di quello di ieri? [...] vendette simili da campieri? Favara è troppo celebre nella storia degli audaci misfatti e delle impunità, perché possa mai affermarsi alcunché a riguardo di tali vendette!!»

Il Delegato ha una visione socialmente totalizzante del fenomeno mafia. Tutte le classi sociali ne fanno parte gli operai delle zolfare innanzitutto, seguono poi le classi artigiana e contadina e per ultima la classe dei civili.

«E ciò che è apertamente deplorevole, la mafia, la più grande piaga sociale dell’Isola in tutte le sue gradazioni e ramificazioni, ha esteso la sua deleteria influenza ed ha abbarbicato le sue radici in ogni classe della popolazione; ne sono principalmente infetti gli operai delle zolfare. Anche l’agricola e l’artigiana danno il loro contributo, e lo dà pur largo la civile che io comprendo nell’annesso elenco n. 1 come quella che io credo la più pericolosa per i mezzi di cui dispone, per la posizione in cui trovasi e per l’influenza di cui gode».

La mafiosità si tinge indistintamente dei colori della politica, mafiosi sono in generale i nemici del governo:

«I più temibili e pericolosi adunque, su descritti nel detto elenco n. 1, come coloro che, o già intrisi del sangue de’ loro simili ed avendo dato e nel delitto e nello scontarne la pena o nello ottenerne l’assoluzione, a seconda dei casi, prove di ferocia, di fierezza e di astuzia, o collocati in posizione sociale, per mezzi e per condizione più elevata e circondati dal prestigio di cui, presso queste masse, per loro natura ribelli ad ogni principio d’autorità, gode sempre chi sa atteggiarsi a nemico del governo vigente ed a cospirativo, hanno maggiori mezzi d’imporsi e s’impongono di fatti maggiormente, senza tener conto che sono tanto più accaniti nel truce apostolato della mafia, inquantochè sanno che, per essa, mantenendosi turbate le condizioni di P.S., si aumenta, pe’ primi, la possibilità di gavazzar nel sangue e nelle rapine, per gli ultimi la speranza, che, crescendo nelle popolazioni la sfiducia nelle Autorità e nelle leggi, il malcontento verso il governo, la diffidenza verso le istituzioni, si faccia sempre più prossimo il momento da loro desiato, quello cioè della sollevazione armata, che cambi gli attuali ordinamenti, fosse pure in quelli della Comune di Parigi, si trovasse pur come là inalberata la bandiera, fortunatamente assai tosto abbattuta, tra fiumi di sangue, cogli eccidi e colle devastazioni».

Mafiosi sono cioè, per esser chiari anche nel nome, i repubblicani e gli internazionalisti, specialmente questi ultimi che inneggiano, sul modello comunardo, alla rivoluzione: per scopi politici, di mafiosità saranno accusati il fratello del saccense Saverio Friscia e, alcuni anni dopo, i repubblicani.

«Né v’ha ormai più chi dubiti che i repubblicani e gli internazionalisti non siano estranei al panico che da qualche tempo si è sparso nella Provincia colle esagerate notizie di bande e di sequestri, anzi se ne attribuisce loro la colpa principale, inquantoché, fiduciosi nel loro programma d’indebolire il governo colla sfiducia e lo scontento delle popolazioni, tanto più che tal sistema è storico in Sicilia per aver prodotto grandi risultati sotto le passate dominazioni, non voglia certo trascurare questo mezzo per riuscire allo scopo».


In estrema sintesi, il Delegato Rossi raggruppa i mafiosi in tre grandi categorie e fornisce delle prime due gli elenchi, impossibilitato a fornire anche il terzo che dovendo contenere nientemeno che l’intera popolazione di Favara risulterebbe smisuratamente esteso:

«Esaurita così la parte generale del compito assegnatomi, vengo ai particolari cioè alle personalità, che descrivo negli uniti elenchi, divisi appunto, come dalle di lei nota 11 luglio n. 203 mi è stato prescritto, nell’elenco n. 1 comprendendo i più influenti e per posizione sociale e per triste fama acquistata, nell’elenco n. 2 i gregari ed aderenti o, meglio, i meno importanti rispettivamente ai primi, ma pur sempre temibili, non potendo tener conto dell’innumerevole sciame di mafiosi non temibili per se stessi, ma pur sempre mafiosi, che conta il Comune, perché, ripeto, tutti ne sono [...coinvolti], meno poche eccezioni, e dovrei quindi spedire alla S. V. ill.ma, certo senza tema d’errore, i registri della popolazione maschile dai 17 anni ai 60».

Salvatore Vaiana

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