Marco Scalabrino
Giovanni Formisano Poeta e Commediografo,
Edizioni Drepanum
Trapani 2012
Poeta,
narratore, saggista, dialettologo e traduttore, o per dirla in sintesi
siciliano doc Marco Scalabrino. Un amore sconfinato per la mitica Trinacria il
suo, che lo porta a tradurre opere di autori stranieri contemporanei in Siciliano e a scivere poesie in dialetto siciliano con traduzioni in Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco e perfino in Latino.
Siciliano e
sicilianista, convinto com’è dell’esistenza di una «nazione siciliana» le cui
origini risalirebbero al «lontano 424
a .C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate».
Espressione alta e prima di questa nazione sarebbe il dialetto «Siciliano»: «un organismo
capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali
si è “incontrato”», da quella greca fino alla spagnola. Fra le persistenze che lo
caratterizzano, evidenzia Scalabrino, c’è un’assenza significativa, la mancanza
del tempo futuro: «Nel dialetto siciliano manca il tempo futuro dei verbi e
ogni proposizione pertinente a un’azione futura viene costruita al presente e
al verbo si associa un avverbio di tempo». Ciò, dice Scalabrino citando Paolo
Messina e questi Tomasi di Lampedusa, porta i siciliani ad essere «padroni del
tempo» a considerarsi addirittura «Dei» in una visione che vuole «scongiurare
la morte» come sembra appunto suggerire l’uso di «un presente che si appropria
del tempo futuro.
Qualcosa
comincia a incrinarsi dopo l’unità d’Italia, con precisione durante il
fascismo, con «un’ingente influsso dell’Italiano» sul dialetto siciliano. A
sostegno di ciò cita - attraverso Salvatore Riolo - Vito Mercadante, il
poeta-sindacalista prizzese da lui studiato nel saggio Vito Mercadante e “Focu di Muncibeddu”, pubblicato in R. Faragi - M. Scalabrino - S. Vaiana, Vito Mercadante Dimensione storica e valore poetica, edizione a cura del Comune
di Prizzi. Il Mercadante nel 1933 scrisse: «I poeti dialettali della nuova
generazione testimoniano – sia pure con qualche eccesso – di questo periodo di
transizione del dialetto; ciò non è né bene né male: semplicemente è».
Ed è partendo
da questa affermazione mercadantiana che Scalabrino, nel suo saggio biografico Giovanni Formisano Poeta e Commediografo
analizza meticolosamente sul piano grammaticale e linguistico alcune poesie del
Formisano, poeta catanese, uno degli «eredi del patrimonio lirico proveniente
da Vito Mercadante e da Vanni Pucci» (S. Di Pietro), che presumibilmente conobbe e di certo ammirò
il Mercadante: «Che Vito Mercadante, il poeta di Prizzi (PA), sindacalista e
antifascista, autore di Focu di
Muncibeddu, e Giovanni Formisano si conoscessero di persona non è emerso
dalla documentazione nella nostra disponibilità. Malgrado ciò, CAMPANI
[ricompresa nel volume Canzuni senza
patri e senza matri del 1934 e dunque Mercadante, 1873-1936, in vita], reperita
su Arte e Folklore di Sicilia numero di marzo-aprile 1983, dà atto di un
qualche rapporto fra i due, per cui la circostanza della loro conoscenza non è
inverosimile».
A parte le idee non condivisibili sulla cosiddetta nazione siciliana, un’invenzione
della ideologia sicilianista e del sicilianismo delle classi dirigenti
siciliane di ieri e di oggi che hanno fatto della Sicilia una terra di mafia,
il lavoro di Scalabrino contribuisce indubbiamente a una conoscenza più ampia e
approfondita della poesia e della lingua siciliane del Novecento.
Riporto di seguito il testo E vui durmiti ancora di Giovanni Formisano, musicato da Gaetano Emanuele
Calì. Il testo è quello riportato da Scalabrino a pag. 36 del suo libro.
E VUI DURMITI ANCORA
Lu suli è già spuntatu di lu mari
e vui, bidduzza mia, durmiti ancora,
l'aceddi sunnu stanchi di cantari
e affriddateddi aspettanu cca fora,
supra ssu balcuneddu su' pusati
e aspettanu quann'è ca v'affacciati.
Li ciuri senza vui non ponnu stari,
su' tutti ccu li testi a pinnuluni,
ognunu d'iddi non voli sbucciari
su prima non si grapi ssu balcuni,
dintra li buttuneddi su' ammucciati
e aspettanu quann'è ca v'affacciati.
Lassati stari, non durmiti cchiui,
ca 'nzemi a iddi, dintra a sta vanedda,
ci sugnu puru iù, c'aspettu a vui
pri vidiri ssa facci accussì bedda,
passu cca fora tutti li nuttati
e aspettu sulu quannu v'affacciati.
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