Giovanni Samperisi
Cento anni d'amore
Romanzo storico
ilmiolibro.it
Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A.
Roma, 2011
Il romanzo Cento anni d’amore di Giovanni Samperisi racconta la vicenda di un uomo che da una misteriosa condizione di solitudine interiore ai limiti dell’alienazione, da un «desiderio di niente» che si rivelerà desiderio inconscio di ciò che gli mancava, arriva, alla fine di un viaggio à rebours nel tempo, a una riconciliazione con se stesso che lo rende «appagato e compiuto». Quest’uomo è all’anagrafe Roberto Parola.
Cento anni d'amore
Romanzo storico
ilmiolibro.it
Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A.
Roma, 2011
Il romanzo Cento anni d’amore di Giovanni Samperisi racconta la vicenda di un uomo che da una misteriosa condizione di solitudine interiore ai limiti dell’alienazione, da un «desiderio di niente» che si rivelerà desiderio inconscio di ciò che gli mancava, arriva, alla fine di un viaggio à rebours nel tempo, a una riconciliazione con se stesso che lo rende «appagato e compiuto». Quest’uomo è all’anagrafe Roberto Parola.
Alle pagine del
«diario di viaggio» di Roberto l’autore affida la memoria del tempo perduto; a
un narratore esterno e onnisciente impegnative riflessioni
filosofico-esistenziali suggerite dalle vicende raccontate e anche spazi
descrittivi, specialmente di paesaggi illuminati, variopinti e profumati della materna
terra di cui Alberto vuole «scoprire gli aspetti più intimi e nascosti» per
recuperarli alla sua scrittura.
Nel romanzo
d’amore, con venature psicologiche ed esistenziali, s’aggirano due forze
contrastanti e complementari dell’esistere: l’una, eros, che schiude l’effimera esistenza di ogni individuo, l’altra, thanatos, che la chiude inesorabilmente.
Entrambe sono presenti con un’intensità coinvolgente nell’incipit, nel cuore e
nell’explicit della narrazione.
Apre il
romanzo l’agonia di Carmela Cortese, madre di Alberto. L’avvertimento del
trapasso spinge la moribonda a un’estrema riappacificazione con se stessa
rivelando al figlio un segreto remoto: Alberto non è suo figlio naturale.
Ora Alberto
inizia a prendere coscienza del «senso di colpa» che accompagna la madre e
della carenza affettiva del padre Ninu «condannato alla paternità putativa» e,
inconsciamente, forse per questo «duro e freddo» con Alberto che lo crede
«cattivo» e arriva ad «odiarlo» («In silenzio le carezze del suo papà gli
sarebbero state care. Invece Ninu era fatto così. O chissà… chissà»). Forse la
memoria fetale di Alberto e di certo quell’incancellabile e disturbante peccato
di origine dei coniugi Parla sono la spiegazione dell’altrimenti
incomprensibile disagio esistenziale di Alberto: «Casa e lavoro e viceversa,
questo è tutto!... per il resto ho vagato in un limbo perenne»; «Solo e
vagabondo come un cane randagio», questo dice di sé.
Ora nell’animo
di Alberto, assieme al dolore per la madre che lo lascia, si agita un
sentimento nuovo, il «desiderio» di scoprire le sue radici più profonde, abbarbicate
nella «terra materna» e nel grembo materno.
Il cammino
catartico inizia con il viaggio dalla residenza torinese a Catania, e da qui verso
un innominato paese dell’agrigentino, ma individuabile nella fulgentissima
Naro.
Nel paese
natio incontra Margherita, sorella di Carmela, e Mariano e Nazareno, fratelli di Ninu. Da loro viene a conoscenza
di tasselli rilevanti della sua storia, annotata meticolosamente nel diario
della sua autocoscienza.
Ma l’incontro
sconvolgente è con Vittoria, la madre naturale, figlia del commerciante don
Gerlandino Fuzzo e di Hamina, una principessa libica: in gioventù due donne
bellissime e discretamente corteggiate in un ambiente culturalmente arcaico.
È di Vittoria
che Alberto riporta con flashback dettagliati il racconto del breve ma intenso e
definitivo amore per William Joseph Dotti, un giovane tenente e giornalista
documentarista statunitense con ascendenze venete ed ebraiche sbarcato il 10
luglio del 1943 sulle coste siciliane nel corso dell’operazione militare delle
forze alleate anglo-americane.
Condotto gravemente
ferito in casa di Vittoria, il tenente Willy viene curato dalla ragazza con una
calda attenzione che sarà fatale per entrambi.
In un tempo
di morte segnato da una «guerra sciagurata» e dalla rivolta del 10 gennaio 1945
dei «Nun si parti» (sostiene il
narratore che «fu incoraggiata dai fascisti, la vollero i separatisti e venne
sostenuta dai comunisti locali»), il loro amore genererà una nuova vita. Il
narratore, guardando da un immaginario
buco della serratura l’unione contrastata fra Vittoria e Willy, descrive la
rivolta dei sensi e del sentimento con una delicatezza che per il calore e
l’intensità sfiora la liricità: «[…] Il fuoco si spense, ma fu ancora amore
finché un rauco e insonnolito cinguettio di passero non accompagnò il loro
riposo.»
Alberto viene
concepito nella fase più cruenta della «rivoluzione per la Sicilia libera»: negli
scontri muoiono cinque rivoltosi e un sottotenente dei carabinieri; e si spegne
anche, d’infarto, don Gerlandino.
In un funereo
crescendo perisce, infine, Willy: inviato il 16 ottobre del ‘44 dal comando
americano a Palermo per documentare il malessere sociale che spinge il popolo a
manifestare contro il carovita e la mancanza di generi alimentari (la protesta culminerà
nella cosiddetta “strage del pane” del 19 ottobre»); morirà poi nella caduta
dell’aereo che lo stava portando a Milano per la celebrazione della Liberazione,
il 25 aprile 1945. Viene seppellito a Boston. Ad ottobre nasce Alberto.
In questa
situazione tragica e compromettente per l’onore della famiglia Fuzzo, la zia paterna,
sovvertendo una legge di natura, costringe Vittoria a cedere il neonato all’infertile
coppia Parola che, per sfuggire alle taglienti dicerie e alla opprimente miseria,
emigrano a Torino. È così che il laconico Ninu “Mezza” Parola, in paese
costretto a lavorare «prono sulla terra a spaccarsi le ossa sulle zolle ostili
dei padroni per un pezzo di pane amaro», nella fabbrica torinese può guadagnare
il necessario, «facendo gli straordinari e accettando i turni di notte perché
meglio pagati», per mantenere dignitosamente la famiglia e far studiare quel
figlio amato in segretezza di sentimenti: diventerà, per «un imperscrutabile
capriccio del caso», giornalista come il padre naturale.
La derubata
mamma, invece, sprofonda in un’infelice esistenza da cui si riprenderà solo
ritrovando il suo Alberto: «Per lei fu come mettere al mondo quel figlio dopo
averlo portato in grembo per sessant’anni».
Anche Alberto
si sente rinato una seconda volta: «Per lui fu la sua metempsicosi, la
rinascita da un grembo nuovo».
Il sortilegio
del nuovo parto, esito della recherche, ristabilisce l’equilibrio iniziale sovvertito.
Ora Alberto, guarito
da quel nichilismo esistenziale, potrà ritornare a Torino con l’identità e la
vitalità conquistate e con il proposito di portare a Boston i fiori sulla tomba
del padre, «eroe sconosciuto che ha vissuto con intensità e pienezza cento anni
d’amore».
Canicattì, 31 dicembre 2013
Nessun commento:
Posta un commento