29.8.22

SALVATORE VAIANA, Una civiltà negatrice del potere dominante



La civiltà dei bambini come utopia 

di un umanesimo della creatività, 

dell’amore e della libertà

in un saggio di Margherita Rimi




«C’era una volta… 

già, cosa c’era una volta? 

Una volta, c’era la banana: 

non il frutto amato dai bambini, 

bensì l’acconciatura arrotolata 

che proprio i bimbi subivano e detestavano 

ma che veniva considerata imprescindibile dai loro genitori.»

(Francesco Guccini)

 

«Una corsia pediatrica in un ospedale per feriti di guerra?

Che cosa c’entrano i bambini con la guerra?

Nessun soldato, specie in una zona di guerra,

raccoglierebbe un oggetto di plastica verde che pare un giocattolo.»

(Gino Strada)



Si sa che i bambini sono sempre stati l’amore sconfinato dei genitori, il futuro degli adulti. Ma nella lunga e tormentata vicenda umana ciò non li ha sottratti alle imposizioni, alle prepotenze e alle violenze degli adulti di qualsiasi classe sociale e allo sfruttamento - a volte bestiale come quello dei carusi delle miniere siciliane - di coloro che gestiscono il potere economico. E anche quell’amore sconfinato mostra, nell’odierna decadente società occidentale, le sue crepe con i ricorrenti figlicidi, esito di un razionale opportunismo o di irrazionale schizofrenia prodotti da questa decadenza.

Di loro si occupano, anche per questi spregevoli motivi, diversi studiosi e categorie professionali, dai pedagogisti, ai pediatri, agli specialisti e studiosi della psiche dell’infanzia, ai letterati e così via. Quest’ampio interesse ha prodotto, fra l’altro, una copiosa produzione editoriale, da cui si discosta per la sua peculiarità e originalità il recente saggio Il popolo dei bambini. Ripensare la civiltà dell’infanzia (edizione Marietti-1820, 2021, pp. 210) di Margherita Rimi, neuropsichiatra dell’infanzia e poetessa. 

L’autrice – cui mi unisce quel cielo di Prizzi sotto il quale entrambi siamo nati – in questo coinvolgente saggio se n’è occupata in una prospettiva nuova e rivoluzionaria in senso sociale, culturale e antropologico.

Il suo è un testo di denuncia degli abusi di cui sono vittime bambini innocenti e indifesi ma anche di proposta per la loro emancipazione e, ancor più, per la loro liberazione, potremmo dire utilizzando un lessico mutuato dal movimento femminista. Esso appare come un invito alla costruzione di un uomo nuovo, a misura delle qualità essenziali del bambino.

Nella sua ampia e articolata disamina, ispirata particolarmente al pensiero e all’esperienza della pedagogista e neuropsichiatra Maria Montessori, esordisce con un’articolata definizione dei bambini intesi come popolo. Un popolo trasversale rispetto ai popoli di ogni luogo e di ogni tempo, «senza alcuna differenza di lingua, colore della pelle, di classe sociale», e diverso dagli adulti. Un popolo di bambini caratterizzati da un’«identità psico-fisica», da uno «spirito di conoscenza, di fantasia e movimento, di stupore per il mondo» (qualità che colpirono tanto Giovanni Pascoli da fare del fanciullino l’essenza della sua poetica), da un «rapporto comunitario», da un «impulso alla libertà». E caratterizzati, in particolare, da un peculiare simbolo identitario, il gioco: i«bambini di nazionalità diversa, se si incontrano, sanno stare insieme giocando, facendo a meno della lingua: questa misteriosa e incantatrice attività dei piccoli rappresenta infatti una vera e propria “lingua universale”»: la lingua appunto di questo popolo. E con il gioco sviluppano la curiosità e l’immaginazione, inventano e socializzano. Altri loro peculiari caratteri li troviamo nelle diverse fasi che attraversa la loro comunicazione e nel linguaggio (e anche quando il bambino «non manipola il linguaggio», la sua esperienza, come nei casi di abusi, può «anche comunicarla con disegni e con il corpo e la mimica»). Questa così ben delineata natura dei bambini viene spesso mal interpretata, umiliata, violata.

La Rimi elenca diverse modalità di errata interpretazione della vera natura dei bambini, errori che possono determinare un loro discredito e talvolta un intollerabile abuso: la squalifica, evidente nelle espressioni “Piangi come un bambino”, “Ti comporti come un bambino”, “Hai paura come un bambino”; l’idealizzazione, che considera l’infanzia come «la terra del paradiso perduto, della felicità, del candore: perciò da rimpiangere», mentre è anche «dolore, esperienze traumatiche, lutti e malattie»; la miniaturizzazione, secondo cui i bambini sono «la miniatura dell’adulto o un suo rimpicciolimento» e non invece «in una fase di sviluppo»; e l’adultizzazione con cui «l’immagine dei bambini viene spesso snaturata, ad esempio nell’ambito dell’industria della moda e nella pubblicità dei media» dove essi si ritrovano esposti «in atteggiamenti e abbigliamento tipici dei grandi», come accade alle «bambine “modelle”». Altre forme di adultizzazione sono le «spose bambine» e i «bambini soldato». La forma più grave di adultizzazione è «l’abuso sessuale», nel quale «l’abusante opera un’equiparazione tra la sessualità dell’adulto e il bisogno di amore, di tenerezza e protezione del piccolo.»

Nel corso lungo della storia qualcosa nella condizione esistenziale negativa dei bambini è gradualmente cambiata a partire dal XIX secolo, quando pedagogisti, neurologi e scienziati della psiche hanno dato vita a quella che la nostra neuropsichiatra chiama «civiltà dell’infanzia», che si fonda sulle scelte promosse «nel contesto familiare e sociale, sanitario» e «nel campo politico e legislativo, culturale ed educativo», che facilitano «la tutela, il rispetto, lo sviluppo della personalità» del bambino.

Ma la vera svolta di pensiero, nell’auspicabile processo della loro liberazione da ogni forma di abuso e sfruttamento che l’autrice avanza, è rappresentata dall’idea di «ripensare» la civiltà dell’infanzia per costruire una «civiltà dei bambini» che realizzi pienamente le sopra evidenziate caratteristiche di popolo.

La Rimi, favorita dalla sua meditata esperienza sul campo, suggerisce alcuni elementi che potrebbero risultare utili per la stesura di un vero e proprio programma innovativo: la formazione degli adulti (dai genitori agli insegnanti, agli operatori nel settore dei bambini), specialmente personale esperto ed équipe specialistiche multidisciplinari, e la sottoscrizione di protocolli d’intesa con lo scopo di coordinare le istituzioni pubbliche (dai servizi sanitari alla magistratura minorile, alla scuola), che si occupano di bambini. 

Un contributo fondamentale alla costruzione di questa avanzata civiltà deve venire, con uno spirito rinnovato, da scienziati, letterati e artisti: dagli scienziati innanzitutto, poiché le novità nelle scienze che si occupano dei bambini stanno producendo dei cambiamenti nella coscienza dell’adulto per meglio comprendere l’esistenza di una civiltà dei bambini; e in subordine dai letterati e dagli artisti, che devono «farsi carico» delle acquisizioni scientifiche. A livello letterario la nostra poetessa, autrice di diverse sillogi poetiche tra cui Le voci dei bambini, cita numerosi autori, dai narratori come Collodi ai poeti come Rodari, per il contributo dato all’elaborazione del suo pensiero.

Il presupposto fondamentale per costruire una così elevata civiltà, sottolinea insistentemente la Rimi, è che queste diverse figure assumano come metodo non il «punto di vista dei grandi», che altera e falsifica la reale natura del bambino, ma quello genuino dei bambini; aspetto questo imprescindibile per non rimanere impigliati nella civiltà dell’infanzia. Per realizzare questa civiltà il limite da superare è quindi l’«ideologia dell’adulto».

 In concomitanza denuncia anche le ideologie dei regimi di ogni epoca – ad esemplificazione si sofferma sulle dittature fascista e nazista e accenna al fondamentalismo islamico dell’ISIS – che hanno impedito con inaudita violenza e indottrinamento la realizzazione della natura dei bambini facendoli retrocedere nel processo di sviluppo della civiltà dell’infanzia.

Non lesina critiche forti anche alle attuali società democratiche e al loro sistema di potere politico (dalle sembianze democratiche ingannevoli ed esercitato con modalità sempre più occulte) ed economico, specialmente ad alcune industrie e ai subdoli sistemi di condizionamento dei mass-media:

 

«In democrazia, nella spietatezza del mercato (l’opulenta industria delle armi), la guerra è protagonista di diversi giochi pieni di ambiguità, inseriti nel contesto delle istruzioni familiari e scolastiche, della pedagogia, e finalizzati al culto dell’aggressività. Attraverso immagini, fumetti, giocattoli e videogiochi attentamente manipolati, oggi si continua a condizionare la personalità del bambino.» 

 

E più avanti scrive:

 

«[Il] pericolo di uniformazione e appiattimento implica anche ragioni politico-economiche: è un modo di dirigere e guidare la società su modelli di pensiero e comportamenti preordinati. Il mondo dei giocattoli diviene, anche in questo caso, uno strumento di sottesa manipolazione, di livellamento, di appiattimento della fantasia, e risponde a logiche di controllo delle menti più giovani.» 

 

Nel suo lavoro va oltre la critica all’ideologia dell’adulto e ai suddetti sistemi di potere passati e presenti, condanna infatti qualsiasi forma di potere oppressivo limitante la natura libera e immaginifica dei bambini. E rileva un’essenziale contraddizione fra la natura di questo potere e quella dei bambini, che spiega così:

 

«Immaginiamo una società dominata e contaminata da un potere che controlla tutto, regolatore, modellatore e creatore di individui in serie. Ebbene, questo potere potrebbe piegare al suo volere tutto tranne i bambini, per la loro carica contagiosa di vita, di libertà e invenzione, per la carica di verità. Solo i bambini potrebbero essere la prova di una resistenza con il gioco, la fantasia, il pensiero, con la loro essenza affettiva e la loro particolare sensibilità. I bambini come soggetti innovatori e forza indomabile e, in questo caso, destabilizzante del potere coercitivo. Una società repressiva e della morte avrebbe paura di non poter controllare il popolo dei bambini, perché essi rappresentano, al contrario, la civiltà della vita, l’ordine della vita, la sua sacralità. Avrebbe timore del popolo dei bambini, perché i bambini sono elementi di sovvertimento dell’ordine repressivo così inteso dal potere dominante.» 

 

Ecco perché, a mio avviso, il potere onnipervasivo e coattivo non può far propria la civiltà, palesemente eversiva, dei bambini senza negare se stesso. La natura del bambino e quella del potere sono antitetiche, non risolvibili in una sintesi che contempli la coesistenza di entrambe. 

Il potere, sapendo che l’impegno di scienziati, artisti e poeti per l’affermazione di questa civiltà qualora fosse portato avanti conseguentemente e fino in fondo si trasformerebbe inevitabilmente in lotta per l’abbattimento di ogni potere dominante, può fare solo limitate concessioni alla civiltà dell’infanzia, compatibili con la natura del suo sistema, tali quindi da non metterlo in crisi o addirittura dissolverlo. 

Solo il progetto di una superiore civiltà umana, che abbandonando totalmente l’idea di potere come dominio dell’uomo sull’uomo abbia come fine ultimo l’umanesimo della fantasia, dell’amore e della libertà, potrebbe prendere a «modello» i bambini come «guida» per l’evoluzione del genere umano.

È questo un progetto che l’autrice, da un lato motivata da profondi ideali e sentimenti umanitari e da solide esperienze professionali e dall’altro lontana, come s’è intravisto, da convinzioni ideologiche (ella dichiara che accogliere la condizione dei bambini come popolo e avviare il percorso verso la loro completa attuazione come popolo deve essere «un atto di civiltà» e «non il prodotto di un’ideologia», la quale non può sostituire la scienza), non sviluppa nelle sue implicazioni politiche. Sviluppo d’altra parte non previsto dallo spirito del saggio. 

In quest’opera, che presenta le caratteristiche di un manifesto per l’integrale realizzazione dei bambini, rimane comunque dichiarata esplicitamente e con forte convinzione la necessità di un’«utopia del cambiamento» per la costruzione di «una nuova coscienza nell’uomo», di «una nuova umanità» fondata appunto sulla civiltà dei bambini. 

I bambini, concludendo con un’efficace espressione della nostra studiosa che ci fa pensare all’impegno dell’indimenticabile Gino Strada, sono «portatori di un patrimonio umano, di un cambiamento sociale di una speranza per un futuro migliore. Per un futuro di pace». 


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