30.3.23

VAIANA SALVATORE, "Spiritualità orientale e spinozismo in Diego Guadagnino e Gonzalo Alvarez Garcia" (Parte prima)


Pubblicato su LE MUSE - Rivista periodica dell'Associazione Culturale "Le Muse" di Ispica - Anno X n. 2 - Dicembre 2022

(PRIMA PARTE)

 

 

Le affinità ideali possono superare le barriere cronologiche e spaziali e legare gli uomini nel dialogo culturale come è accaduto a Diego Guadagnino e Gonzalo Alvarez Garcia, due scrittori provenienti da dimensioni differenti e lontane: l’uno siciliano di famiglia contadina nato a Canicattì nel 1951 agli inizi della democrazia repubblicana, l’altro castigliano di famiglia borghese nato a Leon nel 1924 al tempo della dittatura militare di Primo De Rivera. 

 

1.    Le comuni radici cattoliche

 

Alvarez visse gli anni dell’infanzia in totale simbiosi con la natura come l’Armandin del suo romanzo autobiografico Nidi di airone: «A volte mi sdraiavo sul prato, chiudevo gli occhi e ascoltavo. […] Ero convinto che avrei potuto sentire il brusio sotterraneo delle radici. Il solletico dell’erba sotto la nuca mi dava la certezza di appartenere al mondo delle germinazioni: i semi che si agitavano nel mio sangue premevano per uscire alla luce e sembrava che volessero trasformarmi in foresta. Finché, sopraffatto dalle forti sensazioni, correvo a rifugiarmi tra le braccia di mia madre. Il grillo, l’alcaravàn, le radici silenziose, furono le mie prime divinità, misteriose e feconde». La natura fu dunque la sua prima paganeggiante divinità. Natura con la maiuscola avrebbe scritto molti decenni dopo: «Natura sive Deus».

Studiò nella scuola del caudillo Francisco Franco, il giovane Gonzalo, dove imparò «a cantare l’inno della Falange e a recitare il catechismo» diventando inconsapevolmente «fascista e cattolico». Si laureò in Teologia e Filosofia e poi, nel 1950, fu ordinato prete: «Mi sposai con la chiesa di Cristo (che in quel momento era come sposarsi con il Caudillo), e durante alcuni anni servii con onore sia l’una che l’altro» racconta. Nel 1951 sentì «aprirsi le prime crepe nella sua fede» e «per esorcizzare i “dubbi”» nel 1954 si recò a Roma dove scrisse la poesia “Diálogo con el Señor delante de San Pietro”, espressione di una crisi «drammatica» l’avrebbe definita Leonardo Sciascia.

Con questi sentimenti irrisolti, a fine ottobre dell’anno successivo sbarcò in Sicilia con l’incarico di rettore della “Iglesia española de Santa María de la Soledad” di Palermo. In curia usufruì dei favori del potente cardinale Ernesto Ruffini che, ammiratore del cattolicissimo caudillo, gli offrì subito diversi incarichi di docente. Ma con alto rischio per il presumibile disappunto del cardinale amante delle scomuniche, trasformò la chiesa della “Soledad” in un salotto illuminista frequentato da intellettuali come Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo, Giacinto Lentini, Leonardo Sciascia e perfino qualche onorevole comunista. 

Nel 1965 la sua crisi arrivò a maturazione perciò si spogliò dell’abito talare, si sposò con Ottavia e perse per un banale accidente l’amicizia con Sciascia. 

Anche la prima formazione di Guadagnino fu cattolica, ma di una religiosità diversa da quella nazional-cattolica spagnola, essendo la sua legata alla cultura dell’angusta vaneddra, mitico luogo della sua iniziazione alla vita, che egli trasfigurò letterariamente nel racconto La via breve. Come l’io narrante del racconto, da piccolo si recava nella chiesa della vaneddra accompagnato dalla madre e dalla nonna. «Maestra di catechismo era la signorina Graziella» ricorda. «Lei e mia nonna erano le due sponde tra le quali, dentro di me, crescevano e fluivano le cognizioni di un mondo che allora cominciavo a chiamare spirituale. […] Se lo stare assieme agli altri in mezzo alla vaneddra teneva lontano il pensiero della morte, la religione con le sue rivelazioni mi consentiva di superare alla radice la paura che il suo aspetto carnale generava. Se era vero che tutti eravamo soggetti all’ineludibile destino dei Quattro Novissimi, Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso, allora questa vita era soltanto un tempo minimo ed effimero da dedicare accuratamente alla conquista dell’eterno». A differenza del suo naturale spirito filosofico-esistenziale, l’indotta religiosità non resse all’onda rigenerante della rivoluzione culturale del Sessantotto che lo trasportò sulla spiaggia libera del pensiero laico. Testimonianza di questo passaggio sono i versi di una sua poesia giovanile, “A Cristo”, scritta per «l’eretico che scese / dal pulpito per dire / amore con la vita». Rinasce dunque eretico Guadagnino, un’eresia volta all’amore per l’umanità sofferente.

Fu «la parola ch’è cenere di brama» a far incontrare Alvarez e Guadagnino, i versi ormai maturi della sua opera prima: Trasmutazione.

 

2.    La liberazione dell’anima


Alchimia e spiritualità orientale


La silloge, pubblicata nel 2007, è un work in progress della coscienza che mimando il processo alchemico mira a liberare l’anima dalle interferenze mentali ed emotiveL’emotività è anche ostacolo, oltre che al vero poetare, al «cammino dell’evoluzione umana». 

La sua prima presentazione avvenne a Pozzallo in provincia di Ragusa, la provincia nel cui vivace e fertile ambiente culturale trovò le critiche, gli apprezzamenti e le sollecitazioni che lo avrebbero stimolato a scrivere ancora.

Egli arriva a una poesia d’alto spessore contenutistico e formale guardando ancora, seppur con disincanto, all’esperienza giovanile vissuta da militante sessantottino come si evince dal seguente passo tratto da un’intervista rilasciata al critico ibleo Andrea Guastella: «La mia generazione, quella che ha fatto il Sessantotto concependo l’esistenza come ricerca di un’alternativa allo status quo, come pulsione chiamata a cambiare tutto, non può che collocarsi ai margini di una società fondata sul profitto, sul successo a ogni costo. Margini che non sono certo quelli del reietto o dell’impotente, i quali sognano il centro; sono, piuttosto, la linea che bisogna oltrepassare per ampliare l’orizzonte in funzione della crescita. Questo è un concetto maturato dall’arte, ma il Sessantotto è stato il movimento che ha cercato di abolire ogni confine tra l’arte e la politica: “l’immaginazione al potere, è stato detto”». La devastante crisi delle ideologie che frammentò un’intera generazione non gli fece perdere la speranza nell’Utopia che avrebbe alimentato con un più maturo pensiero.

Uno dei primi a leggere la silloge, più con il caldo animo del poeta che con la fredda ragione del critico, fu Gonzalo Alvarez Garcia. L’emozione che gli suscitarono quei versi fu tale da proporla alla moglie Ottavia sofferente in ospedale. 

Il primo incontro fra i due poeti avvenne il 22 agosto del 2008 a Prizzi in occasione della presentazione di Trasmutazione; presentazione che vide la partecipazione di un pubblico attento, nonostante la non facile interpretazione di una poesia complessa e profonda: pensiero in versi di accattivante musicalità, espressi con una raffinata tecnica retorica, analogica e metaforica. Alvarez giunse appositamente da Palermo per conoscere Guadagnino e dare un suo contributo critico all’opera. Il suo intervento stupì il pubblico per il fascino dell’oratoria e una meditazione sull’opera non astratta e che toccava aspetti di evidente attualità. «La vera poesia non è altro che trasmutazione» disse: «Il poeta, perennemente in lotta con la vita per poter trasformare se stesso da soggetto creatore in oggetto poetico, vive in eterno conflitto con l’etica e l’estetica dei mercanti. Oggi il mondo è governato da mercanti di piccolo cabotaggio. […] Anche se hanno l’insolenza di considerarsi “timonieri globali”, i nostri mercanti sono gente da poco. Sanno distruggere, ma sono incapaci di creare. Soltanto con il loro alito sono riusciti a degradare l’anima riducendola a spirito gregario che va dove porta lo spot televisivo. Di fronte a tali mercanti, i poeti sono l’unica valvola di salvezza che ancora ci rimane.» Insomma, alla disumanità dei mercanti “timonieri globali” egli oppose il valore e la funzione purificante della poesia e il rispetto delle diverse culture umane. È un bell’esempio della carica destabilizzante della poesia e della vera critica poetica. Paragonò inoltre Guadagnino al poeta spagnolo Miguel Hernandez per «la metrica che tutti e due sanno usare con maestria e garbo. L’uno e l’altro dominano perfettamente l’Arte Poetica e di essa si servono per offrirci pensieri e passioni». La manifestazione si concluse con un momento serale conviviale che permise a Guadagnino una prima conoscenza diretta e calda e un dialogo meno formale con il poeta di Léon.

Intanto Trasmutazione riscuoteva un buon successo di critica e anche di lettori. A Guastella, nell’intervista citata sulla «parola poetica» che «scaturisce / dal silenzio ch’è cenere di brama», così rispose Guadagnino: «La parola poetica non può che nascere dal silenzio dell’emotività. L’emotività ci dà un’immagine distorta del reale, ci esilia nel mondo dell’inganno, che è mera proiezione della nostra brama. Ecco perché bisogna incenerire la brama e lasciare che da tale cenere scaturisca la poesia. Aggiungi che noi viviamo in un mondo artificiale, in un mondo che asseconda ed esaspera i desideri. Pensa alla pubblicità, alla televisione che manipola la parola e ne fa uno strumento di stupore e di attrattiva. La poesia nasce e vive al di là di questa fantasmagoria di falsità». Questa connessione fra l’emotività e il processo di liberazione dell’anima la vedremo sviluppata ancor meglio ne I filosofi della Quarta Sezione

La prima delle 10 sezioni della silloge è intitolata “Kali-Yuga”, nome in cui il critico Giovanni Occhipinti intravede a ragione «una dichiarazione di poetica» che «anticipa» o dalla quale «trae sviluppo» l’intero libro, che è pervaso da una spiritualità vicina a quella delle culture orientali. “Kali-Yuga”, precisa infatti l’autore, «secondo la tradizione indù è l’Età Oscura», cioè «quella attuale». “Kali-Yuga” è intitolata anche l’unica poesia della sezione.

Sappiamo che l’induismo, assieme al taoismo e più in generale alle religioni e filosofie orientali, affascina da lungo tempo l’autore. In alcuni titoli della sezione “Scalo ferroviario” compare una esplicita terminologia orientaleggiante che ne riflette lo spirito: «La casa del tao», «il luogo Karmico» (nomi, assieme a mandàla e nirvana, caratterizzanti il suo pensiero; e in cui ci si imbatte altre volte nelle letture di altri suoi lavori, in cui compaiono il feng shui, la Bagavad Gita, Lao-Tze, Budda, …). 

È un fascino per l’Oriente che non poteva non sedurre Alvarez, lui che dà ragione agli «antichi saggi dell’India, della Cina e del Giappone», prende in considerazione i pensieri di Confucio e di Buddha e dichiara che «l’Oriente, l’Islam, il Buddismo, lo Shintoismo, il Taoismo… non sono la negazione della civiltà occidentale, ma facce diverse dell’unica Civiltà umana» e a cui piace «il vago misticismo» della poesia dell’indiano Tagore. 

Negli anni successivi, fra il 2009 e il 2013, si consolidò l’amicizia fra Alvarez e Guadagnino attraverso scambi di email, recensioni e presentazione di libri. È questo il periodo della grande stagione editoriale di Alvarez e Guadagnino con la pubblicazione complessiva di ben otto libri. 

 

L’«implicito» spinozismo di Apocrifi

 

Nel 2011 Guadagnino pubblicò la seconda silloge poetica, Apocrifi. La copertina riproduce “Alberi su fondo giallo” di Salvatore Fratantonio, un pittore ibleo con cui entrò in sintonia di spirito, sue sono anche le copertine delle successive pubblicazioni da La via breve I filosofi della Quarta sezioneTindaro La Grua e la seconda edizione di Trasmutazione (2019). 

La silloge è composta da sei sezioni. La prima è intitolata “Della poesia” e, come già in Trasmutazione, comprende una sola poesia che ne replica il titolo. È una dichiarazione di poetica: ci dice che la liberante poesia ha un valore in sé, «non ha mercato: questo è il suo valore». 

È «un’attività non quotata in borsa», non porta «un’etichetta col prezzo di mercato», gli fa eco Alvarez con identica visione. Insomma, la poesia eleva dall’istinto al cuore, dalla pancia al pensiero utopico, perciò è rivoluzionaria, liberante.

Alvarez, che firma la Prefazione, ritenne la raccolta «più meditata, più sofferta, più intima» di Trasmutazione e ne svolse, primo fra i critici, l’essenza spinoziana nel «geometrico misticismo». Nell’esergo senechiano e nelle «citazioni, numerose, ma implicite» di Spinoza il poeta-critico individua le «lunghe meditazioni sul significato del destino individuale»: «si percepisce in lontananza il fragore del combattimento, dell’“agonia” che l’Io intimo del poeta sostiene per rimanere ancorato all’armonia totale della Natura. "Deus sive Natura", aveva affermato Benito Espinosa.»

Guadagnino gli scrisse in un’email di precisazione: «Il titolo, Apocrifi è spinoziano… Non riconosco al male un’entità autonoma. Lo considero alla stregua di Spinoza quando nell’Etica scrive che la conoscenza del male è conoscenza inadeguata, errore di prospettiva». Alvarez gli rispose precisando spinozianamente: «Anche quella del bene, caro Guadagnino! Sin dall’inizio dei tempi i grandi Dottori ci hanno insegnato che ciascuno di noi è un Microcosmo, un piccolo Centro dell’Universo, un primogenito destinatario finale della Creazione… E così, vittime di un narcisismo forzato, riempiamo la nostra povera testa di antropomorfismi, di errori di prospettiva: bene-male. La verità è che non siamo il centro di niente. Siamo molto di più: una particella del Tutto. Un frammento di Natura, cioè, di Dio…». E così concluse: «Dal suo Spinoza Diego Guadagnino ha ereditato anche lo sguardo geometrico, che decanta le costruzioni artificiali del “pensiero pensato” per concentrarsi sulle cose utilizzando le risorse euristiche della ragione».

Dopo Apocrifi, il dialogo spinoziano sarebbe avvenuto indirettamente con altre forme letterarie e più espliciti e approfonditi contenuti di pensiero.

 

«Germogli di umanità» mediterranea


Sulla vicinanza fra poeti e filosofi (come Spinoza o Socrate) è ancora Alvarez a illuminarci in un volumetto collettaneo pubblicato nel 2011, Memorie mediterranee: «Tutti i poeti hanno il loro angelo personale, come Socrate aveva il suo daimon. Che nessuno si stupisca se chiamo Socrate fra i poeti. La sua ricerca della Verità non fu altro che l’insegnamento appassionato della bellezza». Socrate ha la fissazione della maieutica, del ragionamento finalizzato all’essere libero, autosufficiente, felice come il filosofo perfetto: «Stamattina sono andato al mercato e con gioia ho visto di non avere bisogno di nulla» direbbe l’ateniese.

Memorie mediterranee è un libro originale, un inno all’arte, in cui si incontrano pittura e versi: contiene 10 poesie di Guadagnino, tratte da “Trasmutazione” e “Apocrifi”, altrettanti della poetessa Enza Giurdanella e 21 dipinti di Salvatore Fratantonio. 

La copertina del libro riporta l’olio su tela “Carrubo n. 2” di Fratantonio, l’artista con cui Guadagnino entra in simbiosi ontologica, svelatrice dell’essere come si legge nella poesia “I carrubi”, cui è dedicata.

Profondo recensore del libro fu ancora Alvarez, che scrutò l’insieme dell’opera con gli occhiali di Spinoza: «La parola del poeta e i colori del pittore sono Natura. La Natura! […] Lo scienziato si limita a studiarla. Il poeta aspira a fondersi con essa. Ogni poeta è un mistico. Così rientriamo nel solco di Benito Espinosa […] “Natura sive Deus”. La Natura e Dio sono la stessa cosa. E noi, con i nostri sogni, i nostri lamenti e le nostre grida di felicità, apparteniamo all’una e all’altra».

 

3.    Le eresie spinoziste

 

Assieme alla poesia fu proprio il pensiero di Spinoza ad avvicinare ancor più Guadagnino e Alvarez.

Alvarez arrivò all’immanentismo spinoziano dopo essersi liberato dall’opprimente abito di prete franchista e seguendo quella istintiva inclinazione che lo conduce a identificarsi nell’essenza spirituale della Natura. L’approdo a Spinoza, dichiarò in un’intervista, avvenne, più che per fredda riflessione filosofica, come spontaneo ritrovamento di una originaria condizione di compenetrazione fra spirito e natura. Il nuovo Dio che sentiva dentro di sé coincideva con la Natura in cui si era immerso nell’infanzia.

Guadagnino invece arrivò a Spinoza dopo la deludente esperienza giovanile marxista alla quale s’è accennato. La crisi delle ideologie però non gli fece perdere la «fede nell’utopia» esplicitamente espressa, in un articolo della stagione sessantottina, sul periodico “Il Punto” (1972): 

 

«I benpensanti […] si contentano di sentenziare che questa gente (i proletari) è semplicemente utopista. […] La verità è che costoro, nella loro esistenza di parassiti sociali, sono diventati incapaci perfino di pensare ad un mondo diverso. […] Dal momento che lo sfruttato comincia a pensare nella realtà della propria condizione, il suo ragionamento diventa ovviamente opposto a quello dei suoi sfruttatori, per i quali non è che un visionario, un utopista. L’accusa di utopista e il rispettivo richiamo alla realtà, a ragionare con i piedi per terra mirano esclusivamente a far desistere gli sfruttati dalla lotta per la loro emancipazione. […] L’utopia cessa di essere tale nella misura in cui esiste un impegno individuale sostenuto dalla fede nella lotta che si compie. […] L’utopia è prima di tutto piena fede nell’uomo, religione dell’uomo (non a caso il termine fu coniato in un periodo in cui veniva rivalutato l’uomo come essere terreno, e per dare titolo ad un’opera che auspicava un mondo degno dell’uomo.»


Ne tantomeno quella crisi lo spinse, come accadde a tanti suoi compagni di lotta integrati nel sistema di potere, a supportare quel terribile mondo distopico che cominciava a rivelarsi.

Pur con questi diversi retroterra culturali ed esperienziali ma animati dallo stesso spirito libertario, Guadagnino e Alvarez approdarono - attraverso Spinoza, la cultura orientale e la critica al neocapitalismo consumistico e tecnocratico - a due originali prospettive di cambiamento dell’ordine dominante: l’uno a una «Teologia laica» aspirante a «un umanesimo nuovo, universale» e a un’«unica Civiltà umana», l’altro a una peculiare forma di «Utopia del pensiero» aspirante a un cambiamento sociale attraverso una trasmutazione delle coscienze e una rivoluzione culturale di vaga memoria gramsciana.

Se in Apocrifi abbiamo rilevato dei segni impliciti di spinozismo, è in Il fabbro e le formiche (2011) che troviamo un primo esplicito accenno al Spinoza. È un saggio biografico su Domenico Cigna, politico, avvocato e letterato, e anche uomo «essenzialmente religioso», «di una religiosità profonda e lancinante». Ma «la permanente irrequietezza spirituale, che lo rendeva inidoneo a diventare il cantore di una pacificatrice entità divina, ha fatto di lui un vero poeta della ricerca di Dio». Per l’autore il socialista Cigna è caratterialmente un “Marte fluorico”: a lui non si addice l’alchimista che, animato di pazienza e volto alla preghiera, «trasmuta» la sostanza, si addice invece il fabbro che, usando la forza e la violenza, forgia la forma. Quella di essere un Marte fluorico è una modalità che avrà delle conseguenze sul piano di una coerente scelta religiosa: «Questo dato caratteriale gli impedirà l’accesso al Dio di Spinoza, che non postula, nel governo dell’universo, la partecipazione concorrenziale di nessun demonio, e non implica alcuna entità del male contrapposta ad altra entità del bene, mentre il cattolicesimo, col suo connaturato manicheismo, gli è congeniale. E può darsi anche terapeutico».

Nello stesso 2011 Alvarez e Guadagnino pubblicarono due opere in cui si manifesta palesemente il loro comune spinozismo, sono rispettivamente, Dios a la vista! I filosofi della Quarta Sezione.

 

La Teologia laica

 

Dios a la vista!, oltre ad essere un saggio sul pensiero filosofico e religioso dell’autore, può considerarsi il bilancio di un lungo percorso di formazione: «costituisce - precisa Guadagnino - il redde rationem tra l’ex prete e l’uomo nuovo con la sua Weltanschauung illuminista, tra il figlio dell’ambiente nativo e il figlio dalla propria consapevolezza».

L’idea centrale di Alvarez è di riprendere e sviluppare la proposta di (ri)fondazione di una «teologia laica» di ispirazione spinoziana, idea espressa nel titolo del libro e così chiarito: «Nel 1926 Ortega y Gasset […] lanciò il grido: “Dios a la vista!”, con un saggio premonitore, come molti dei suoi, nel quale sosteneva che era arrivato per gli scienziati il momento di occuparsi direttamente di Dio». Un obiettivo davvero ambizioso e attuale in un mondo globale multietnico e multiculturale tanto da far osservare a Guadagnino che all’autore il titolo «gli serve solo da spunto per avviare una serie di considerazioni sul concetto di divinità e sui rapporti tra le principali religioni nella necessaria convivenza imposta dalla globalizzazione».

Nella Parte Prima del libro l’autore affronta diverse tematiche fra le quali quella morale. Nel mondo globalizzato egli aspira a una morale universale fondata sull’Ethica di Spinoza, che «riconosceva soltanto due comandamenti divini: la giustizia e l’amore del prossimo», e «sul consiglio che viene dai padri fondatori dell’antica morale greca», e i Greci rispettavano la Natura e mostravano un «sorprendente senso» della realtà. «Da chi ricevettero quel magnifico senso del reale che li rese così liberi e fecondi?» si chiede Alvarez. La risposta sta nei loro poeti di cui è precursore Omero. Sulla poesia così chiosa Guadagnino:

 

«Come Spinoza col suo Deus sive Natura, il poeta con la sua sensibilità abbraccia tutto ciò che esiste. Tale capacità di visione lo pone nella stessa posizione del saggio, anche se, a differenza del saggio, non tralascia di dar voce alla gamma variegata delle emozioni. L’emozione, positiva o negativa non importa, appartiene anch’essa alla Natura, ed esprimerla significa poterla dominare senz’esserne travolti. Tradurre in poesia un’emozione è un atto dello spirito che fonda o alimenta la civiltà, perciò “le più alte forme di vita fiorite tra i popoli conducono ai poeti.” […] Tra tutti i filosofi, Spinoza è forse quello che più di ogni altro ha esercitato un fascino irriducibile su poeti e scrittori. Da Goethe a Flaubert, a Borges a Singer, in tanti lo hanno amato ed eletto a filosofo di riferimento: segno che la sua filosofia riesce a raggiungere il fondo universale dell’essere, esattamente come la poesia più autentica. Ma a certe latitudini i generi non esistono più.»

 

La seconda parte, intitolata “La Teologia di Benedetto Spinoza”, è esclusivamente dedicata a Spinoza e ad alcuni approfondimenti sulla «Teologia laica». 

L’eredità «immarcescibile» che ci lascia Spinoza è il Deus sive Natura: «La Natura e Dio sono la stessa cosa». Con ciò l’autore afferma «l’Unità dell’essere» e un Universo in cui «tutto ciò che esiste e accade […] ubbidisce a un ordine eterno, secondo determinate leggi che sono al tempo stesso naturali e divine». «Estremo realismo, radicale idealismo di un filosofo che guarda tutto, dall’Universo nel suo insieme al minimo evento dell’esistenza quotidiana, sub specie aeternitatis, con l’occhio dell’eternità».

La comunità ebraica di Amsterdam cui apparteneva non gli perdonò il suo pensiero eretico e il Mahamad, l’inquisitorio tribunale della Sinagoga che vigilava sull’ortodossia religiosa ebraica, il 27 luglio del 1656 emise un orrendo bando. Spinoza morì in solitudine il 17 febbraio del 1677 appena quarantacinquenne ma, a differenza di un ignoto «fanatico» che aveva attentato alla sua vita, rimase un pensatore miliare nella storia del pensiero.

La parte terza è dedicala alle radici islamiche della cultura europea: la Sicilia e la Spagna, le due punte d’Europa attraverso le quali la superiore cultura islamica medievale fecondò l’Occidente. Diversamente dalla dominazione islamica medioevale, nell’età moderna gli imperialisti europei hanno dominato il globo terrestre con «animo rapace» e l’arroganza di «chi si crede padrone della cultura e non ha più niente da imparare»: «Gli Spagnoli rasero al suolo nobilissime civiltà. Gli Inglesi non si degnarono di porre una sola domanda all’antica Saggezza Indiana, perché non la ritenevano degna di dare risposte. Lo stesso fecero i Francesi in Indocina, i Belgi in Africa… Siamo arrivati ovunque come una piaga di locuste, per impadronirci e distruggere, non per ‘dare e ricevere’».

Il messaggio di Alvarez, improntato alla tolleranza al dialogo e alla pace «in favore di un Umanesimo nuovo, universale», è chiaro: «Il terzo millennio non deve tornare ad essere tempo di anatemi incrociati. Nessun capo di Stato dovrebbe permettersi di invocare il nome di Cristo per scatenare le sue guerre preventive. Nessun uomo di cultura può essere così meschino da sentire il bisogno di sbattere in faccia ai musulmani il fantasioso primato della cultura occidentale, dimenticando che dai musulmani l’Occidente imparò l’arte di pensare e l’arte di dubitare. La Democrazia e la Civiltà non sono privilegio e appannaggio dell’Occidente.»

L’autore chiude la sua lezione di plurale convivenza religiosa e culturale nel nuovo mondo globale appellandosi a un libero pensiero ispirato a Michel de Montaigne che distinguendo tra fede e ragione rispetti entrambe.

A conclusione riportiamo una integrazione di Guadagnino critico alle riflessioni di Alvarez sulla globalizzazione utile alla comprensione del un rapporto con cui la élite mondialista esercita il suo potere, quello fra scienza e ideologia dominante (rapporto che riteniamo sintetizzabile nell’espressione ideologia tecnocratica):

 

«Nell’era della globalizzazione si verifica un fenomeno inquietante, di cui Alvarez non parla ma che non è possibile ignorare: gli scienziati stanno occupando il posto lasciato dai teologhi. Ieri erano questi che approntavano le giustificazioni ideologiche ai soprusi del potere. L’infelicità umana determinata da un potere iniquo trovava la sua ragione d’essere in una costruzione fantastica dove i conti tornavano e tutto aveva un senso. Oggi a fornire la stessa giustificazione, a un potere ugualmente iniquo, sono quegli scienziati compiacenti, che con un termine storicamente significativo possiamo definire “collaborazionisti”, anche il nazismo aveva i suoi scienziati. E, grazie al connubio di scienza e potere, ci avviamo verso una società in cui non saremo più padroni del nostro corpo, una società in cui sarà l’élite governante a decidere quanto e come dobbiamo vivere, quando e come dobbiamo morire. Le distopie profetizzate da scrittori come Orwell ed Huxley, nella loro dimensione letteraria, sono costruite dal potere politico e supportate dal sapere scientifico. Prevederle non è stato sufficiente a esorcizzarle. Quei testi che fino a ieri ci sembravano curiosità fantascientifiche ora incombono sempre più sulla vita di tutti i giorni».

 

Nel complesso il critico valuta positivamente Dios a la vista!, anche alla luce di quell’utopia del pensiero cara a Calogero Vinci: «In un tempo in cui l’inganno, l’impostura attraverso l’informazione e i messaggi subliminali diventano sempre più ‘creatori’ di realtà, il saggio di Alvarez ci appare come un viatico o un manuale di ‘istruzioni’ per affrontarla. A farlo tale è la pacata pedagogia del ragionamento come metodo di pensiero che ne anima le pagine. […] L’invito [di Alvarez] a revocare la delega ad altri e ad attivare la propria intelligenza viene svolto attraverso quegli autori da cui Alvarez ha imparato a pensare, i razionalisti, gli illuministi, ma soprattutto il filosofo olandese Baruch Spinoza», lo stesso de I filosofi della Quarta Sezione.


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(LE PAGINE DELLA RIVISTA)









* La SECONDA PARTE nel prossimo numero della rivista

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