22.11.09

GIUSEPPE CARLO MARINO, La strage di Canicattì in “La Sicilia delle stragi”



Intervento del prof. G. C. Marino alla presentazione del libro
"La Sicilia delle stragi"
Canicattì, 18 gennaio 2008.





Ringrazio gli organizzatori della manifestazione, i presenti, coloro che hanno svolto delle splendide relazioni su questo libro, che mi appartiene in quanto regista di un’operazione culturale che vuole essere un’operazione civile di riscrittura della storia della Sicilia, una riflessione della storia della Sicilia da un punto di vista dal quale non era mai stata studiata: le sofferenze tragiche del popolo siciliano che ha subito le stragi. Questo è il senso, anche al di là di quella che è la mia produzione sull’argomento, la “Storia della mafia”, per esempio, che qualcuno forse ha letto.

L’attenzione è rivolta alla dinamica del fenomeno e anche all’eventualità di subire accuse di antisicilianismo che, peraltro, mi sono state rivolte da colleghi vicini e assai stimabili. Questo volume dimostra almeno la credibilità della linea interpretativa che ho seguito ai fini di una valorizzazione della cultura siciliana come cultura “trafitta”, come cultura “crocifissa”, dalle classi dirigenti che si sono susseguite e che purtroppo hanno rappresentato il potere.

Si tratta di un libro che gode di un già rilevante successo per la bontà dei lettori siciliani e dei lettori di tutt’Italia, sicché quelle che qui vedete sono le ultime copie di un’edizione quasi esaurita, mentre l’editore sta provvedendo a inviare alla tipografia per la stampa una nuova edizione riveduta e corretta.

E’ un dato da rilevare con soddisfazione il fatto che adesso, proprio in virtù della buona sorte di questo libro, anche la strage di Canicattì, il tragico accadimento di questo vostro paese, sia d’ora innanzi conosciuto da molti lettori di tutt’Italia. Gran parte del merito spetta soprattutto all’ottimo, illuminante, ricco saggio di Salvatore Vaiana. Non è la prima volta che Vaiana contribuisce in modo decisivo a creare un’attenzione scientifica sulla storia di Canicattì, spesso in ambito regionale, ma questa volta, si può ben dire, in ambito nazionale.

Certo, va detto, la strage di Canicattì non è l’unica di cui si parli nel libro. Addirittura nella cronologia finale, scritta da un mio allievo che si chiama Mario Siragusa, si ripercorre questo itinerario della sofferenza del popolo siciliano che ha subito le violenze dal potere dal Settecento ai nostri giorni: una cronologia che chiarisce quanto questa storia sia stata lunga nel tempo, un tempo molto più che secolare.

Anche a volerci limitare soltanto all’ultimo periodo, che è quello su cui si soffermano gli autori del libro (il periodo storico che va dall’Ottocento ai nostri giorni), le stragi sono state moltissime. Tuttavia i caduti, in termini di mero computo quantitativo, non sono stati in Sicilia così numerosi da creare una situazione minimamente comparabile con quella alla quale ci sta abituando la cronaca di questi terribili anni del nuovo Millennio. La sola strage a seguito dell’attentato terroristico alle Twin Tower, a New York, ha provocato circa 3.000 morti. Invece, tutte le stragi siciliane, dall’Ottocento al Novecento, per numero di morti sono al di sotto di quelle che si sono registrate e purtroppo continuano a registrarsi in paesi come l’Afghanistan, l’Iraq e la Palestina.

Però, le stragi siciliane hanno una specificità (su questa specificità ho fortemente insistito) sul lungo percorso del dramma del potere in Sicilia dall’Ottocento ai nostri giorni. Che cosa, riferendomi a tale specificità, ho tentato di capire e che cosa ritengo d’avere capito? Mi è parso di capire e di poter scrivere che le stragi siciliane (siciliane, appunto, perché compiute in Sicilia) rappresentano e concretizzano tutta la perfidia della tradizione dei ceti dominanti dell’isola. Ben più che le altre stragi accadute nel mondo, quelle siciliane sono stragi perfide, calcolate, strategiche, non necessariamente sanguinose. Anche il calcolo dei morti fa parte del calcolo, della perfidia di queste stragi. L’importante è realizzarle con l’obiettivo di impaurire quelli che i mandanti considerano loro nemici e di creare, al di là della stessa paura provocata dall’evento, un clima di terrore, possibilmente da stabilizzare, da rendere continuativo. Sono, pertanto, delle stragi che ubbidiscono a una molto sofisticata intuizione della potenza dominatrice della paura. Quindi, per dirla con altre parole, stragi che, nel creare la paura, tendono a renderla dilagante in modo da irretire le forze che contrastano il potere. Questa è la strategia.

Di chi è la responsabilità? Io voglio spendere una parola a favore delle forze dell’ordine, dell’esercito. Ma voi ve lo immaginate un tenentino di Cuneo che spara contro i contadini di Canicattì, lui un poveraccio del Nord, messo a far da aguzzino di altri poveracci? Purtroppo questo è spesso accaduto: poveracci mobilitati con le armi contro altri poveracci. Allora, mi direte, il responsabile è lo Stato? No. Normalmente la dinamica dei fatti rispondeva ad una precisa strategia dei potenti locali (i notabili, gli ottimati, i loro fidaci complici mafiosi) per indurre quel soldato del Nord, il povero tenentino di Cuneo, a sparare, in difesa di un “ordine” (ovvero di un assetto sociale) che proprio loro e soltanto loro, appunto i potenti locali, ritenevano minacciato da una qualsiasi, pur appena accennata e blanda, iniziativa popolare per la giustizia sociale. Badate, questa operazione venne condotta in Sicilia – e il libro lo documenta – fin dai tempi dei Fasci siciliani, che furono anche i tempi della repressione di quei Fasci, di quelle organizzazioni popolari. Di solito, come funzionavano le cose? Si svolgevano nelle piazze dei paesi e delle città delle manifestazioni di lotta dei cosiddetti “fascianti”. Manifestazioni di lotta sostanzialmente pacifiche, che al massimo avrebbero potuto impressionare per le loro parole d’ordine di protesta, per la foga di un’opposizione alle ingiustizie che, naturalmente, conteneva anche la forza profonda di un’opposizione politica ai ceti dominanti. Ed era proprio quest’opposizione politica quel che si voleva ad ogni costo bloccare, dalle postazioni dei cosiddetti “galantuomini” rinserrati nei così detti “Casini dei nobili”. E come la si bloccava? Si creavano le condizioni perché la forza di riscatto sociale implicita in tale elementare opposizione politica finisse per turbare davvero l’ordine pubblico. L’operazione era tanto semplice quanto perfida: di solito si infiltravano nelle manifestazioni popolari le famose guardie campestri (che erano degli sgherri al servizio dei “galantuomini”, dei mafiosi o degli “amici degli amici”). Guardie campestri di tale natura erano sempre presenti nelle manifestazioni dei Fasci siciliani represse dalla forza pubblica. Il compito dell’infiltrato, ovvero del provocatore, della “guardia campestre” tra la folla, era normalmente quello di attaccare la polizia o, almeno, di creare le condizioni che facessero temere una prossima degenerazione della protesta popolare in azioni eversive. Era ben facile che in tali situazioni il tenentino si spaventasse, che avvertisse un’emergenza da contrastare, temendo egli stesso di esserne coinvolto con rischi per la sua vita. Così, spaventato, ordinava il fuoco e faceva fuoco. Di solito accadeva così. La responsabilità era allora dello Stato? Sì, nel senso di una mera responsabilità “tecnica” dei carabinieri o della polizia o dell’esercito di fronte ad una situazione avvertita come minacciosa per il cosiddetto ordine. Ma i veri responsabili erano quelli che aizzavano al turbamento dell’ordine pubblico; erano appunto gli infiltrati. Di tutto questo ci sono le prove. Basta leggere i documenti per quanto riguarda i Fasci siciliani e la dinamica che ho descritto si evidenzia con chiarezza.

A me sembra cha anche la strage di Canicattì, accaduta a tanti anni di distanza dall’età dei Fasci siciliani, sia da spiegarsi tenendo presente la continuità nell’isola di tale specifica dinamica dello stragismo siciliano. Anche per merito della lucida analisi di Salvatore Vaiana, essa assume un rilevo particolare nel libro di cui qui stiamo parlando. Non è impressionante il numero dei morti: appena quattro. Ma è assai importante nella strategia culturale e storiografica del libro perché sintetizza con un’agghiacciante evidenza proprio i caratteri della strage di Stato che non è strage di Stato: strage per un verso casuale, che, però, in realtà, è l’esito di una provocazione “interna” che la determina, che la produce. Tanto è vero che – l’ha ricordato l’avvocato Guadagnino – se ne fece risalire la responsabilità alle stesse vittime. Incredibile! no? Ma per quanto questo fosse incredibile si tentò di accreditarlo come verità, sicché gli imputati del relativo processo sarebbero stati i capi del popolo che era sceso in piazza a manifestare per l’applicazione di una legge (quella sull’imponibile di manodopera) che i “galantuomini” rifiutavano. Gli imputati furono sia assolti che condannati. Condannati per avere turbato l’ordine pubblico in una domenica vicina al Natale, ma assolti relativamente al reato di strage. Quindi, comunque colpevoli, anche se non stragisti! Ma chi erano i responsabili della strage? Sembrò poco interessante tentare di trovarli. L’importante per la “giustizia” di quei tempi era che i nemici dell’ordine, quei pericolosi “rossi”, andassero in galera. E andarono infatti in galera (o se ne sottrassero a stento con dolorose avventure), affinché si accreditasse l’idea che gli avversari dei “galantuomini” e dei notabili mafiosi erano tutti dei pericolosi eversivi, potenzialmente responsabili di terribili azioni stragiste. Quindi, il giudizio del tribunale, fu soprattutto un giudizio “politico”, di una politica funzionale agli interessi dei potenti, come è stato giustamente rilevato dall’avvocato Guadagnino.

Concludiamo, ritornando sui punti centrali della mia riflessione. I responsabili delle stragi accadute in Sicilia – non solo di quella di Canicattì, per quanto quella di Canicattì riassuma lo stragismo siciliano in modo esemplare – sono stati nel tempo, anni dopo anni, i ceti dirigenti siciliani. Ora, per il tramite della carabina del carabiniere, ora per il tramite del fucile del poliziotto, i veri responsabili delle stragi sono sempre stati loro, i ceti dominanti insieme al loro seguito organico di mafiosi, i potenti che hanno sempre temuto i processi di trasformazione e di rinnovamento della società siciliana. Quindi, in definitiva, a sparare contro i siciliani sono sempre stati altri siciliani. È questa la specificità delle stragi siciliane.

Certo la Riforma agraria – il filmato di Ottavio Terranova ce l’ha sinteticamente spiegato – ha cambiato parecchie cose, ha creato le condizioni per una trasformazione di cui anche il vostro territorio costituisce un’importante e significativa testimonianza, seppure adesso minacciata dalla crisi che sta investendo drammaticamente l’Italia intera. Le lotte per la riforma agraria hanno certamente contribuito ad eliminare questa maledizione della storia siciliana: la maledizione per cui dei siciliani sparano su altri siciliani. Infatti, la riforma agraria ha smantellato il latifondo e ha annientato i latifondisti con il loro esercito di gabelloti e di “guardie campestri”.

Purtroppo è vero che alla vecchia mafia legata ai “baroni” si è poi sostituita la mafia di città con il suo apparato di borghesia mafiosa. Di qui, l’altra strage, la “strage lunga” analizzata nel libro, compiuta di recente da Cosa Nostra. E al fondo di tale “strage lunga” sono ancora ravvisabili le perfide alleanze tra la mafia e i “notabili” della politica, ovvero tra una certa Sicilia del malaffare e un certo Stato di classe, nemico della giustizia. Però va anche detto che le lotte democratiche hanno ampiamente inciso sui rapporti fra Stato e cittadini in Sicilia e li hanno modificati in meglio. La magistratura che condannò il nostro amico Acquisto a sette anni di galera era una magistratura asservita al potere politico. Le lotte popolari hanno reso possibile non soltanto la liberazione di tanta gente dall’oppressione dei ceti dominanti tradizionali, ma hanno reso possibile anche la liberazione dei ceti intellettuali dal potere di una statualità nemica della democrazia e nemica della libertà. Hanno reso possibile la formazione di una magistratura che oggi, probabilmente, non condannerebbe il signor Acquisto, tanto è vero che è una magistratura capace di condannare addirittura un Presidente della Regione. Ecco, quindi, quel che va riconosciuto: molta strada si è fatta. E questo libro vuole essere anche un libro di speranza sulla possibilità di fare avanzare ancora più avanti, verso il progresso, verso una profonda “riforma intellettuale e morale” la nostra Sicilia. Ed è un libro aperto perché ciascuno lo può integrare ed è chiamato ad integrarlo con le sue riflessioni e, se vuole, con le sue critiche, che saranno sempre benvenute e che sono anzi esplicitamente richieste. Intanto vi ringrazio per la vostra attenzione.

Giuseppe Carlo Marino

* (Trascrizione dell’intervento a cura di Salvatore Vaiana)

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